di Daniele Ganser

Roosevelt sapeva che, se gli USA fossero stati coinvolti in una guerra col Giappone, sarebbe scattato un effetto domino che poteva allargare il conflitto anche alla Germania, dato che il 27 settembre 1940 Giappone, Germania e Italia avevano sottoscritto un patto tripartito, noto anche come Asse Roma-Berlino-Tokyo, per assicurarsi sostegno reciproco. «Roosevelt voleva anzitutto fare guerra alla Germania», spiegò il giornalista George Morgenstern del «Chicago Tribune», quotidiano statunitense all’epoca assolutamente favorevole all’isolazionismo del paese. «Ma dato che Hitler non intendeva fornirgli nessun pretesto per dichiarare guerra, volse le sue mire al Pacifico e al Giappone, per entrare in guerra in Europa dalla porta di servizio. Il patto dell’Asse mise finalmente in chiaro che, anche avviando le ostilità con una sola delle tre potenze, si sarebbe passati a una guerra con tutte quante». Per l’opinione pubblica il presidente Roosevelt era amico dell’uomo della strada e difensore della pace, ma si trattava di un’impressione ingannevole. Lo storico inglese Antony Sutton ha scoperto che la sua ascesa fu resa possibile dalle superpotenze: secondo lui, le facoltose famiglie du Pont e Rockefeller lo avevano appoggiato nella campagna elettorale del 1932, portandolo quindi alla Casa Bianca l’anno successivo. Nel suo studio, Sutton giunge alla conclusione che quasi l’80 per cento dei soldi che servirono alla campagna presidenziale di Roosevelt provenivano da Wall Street. Lo stesso Roosevelt era perfettamente consapevole di quanto egli dipendesse dai super-ricchi e sapeva anche che costoro pilotavano la politica da dietro le quinte sin dalla presidenza Jackson (1767-1845). «La verità effettiva, e questo lo sapete bene quanto me, è che dai tempi di Andrew Jackson alcuni settori dei grandi centri finanziari controllano il governo», scriveva proprio Roosevelt nel 1933 in una lettera confidenziale al diplomatico americano Edward Mandell House. Ovviamente questa affermazione non fu resa pubblica. Molti americani credevano, a torto, che Roosevelt fosse l’uomo giusto per tenere il paese lontano dal conflitto, dal momento che in pubblico aveva sempre affermato che non avrebbe portato in guerra gli USA. Il 30 ottobre 1940, poco prima delle elezioni, in un discorso tenuto a Boston, Roosevelt fece la dichiarazione seguente: «Ho già detto, e non smetterò di ripeterlo: i vostri ragazzi non saranno mandati a combattere in guerre straniere». Il popolo credette alle sue parole e così il 54 per cento dei voti andò ai democratici, e Roosevelt ebbe un terzo mandato. Questi però aveva ingannato i cittadini: non era l’uomo della pace. Su Wikipedia, l’enciclopedia gratuita su internet molto adoperata non solo da studenti ma anche da insegnanti e giornalisti, la voce “Attacco di Pearl Harbor” sostiene che fu un «attacco a sorpresa», del tutto inatteso per gli USA. Questo però non corrisponde a verità. Il presidente Roosevelt e i suoi collaboratori più stretti non solo erano a conoscenza dell’attacco imminente, ma lo avevano addirittura provocato, bloccando al Giappone i rifornimenti di petrolio. Si trattò di una cospirazione, vale a dire di un accordo segreto fra due o più persone, come ce ne sono state tantissime altre nel corso della storia. Eppure nella voce su Wikipedia questa ipotesi viene liquidata relegandola nelle “teorie del complotto” (sulle quali informa il paragrafo specifico dal titolo “Teoria del complotto sull’attacco di Pearl Harbor”), che secondo la versione tedesca sarebbero «respinte dalla maggior parte degli storici per la mancanza di riscontri affidabili». Ovviamente le opinioni degli storici sui fatti di Pearl Harbor sono diverse: alcuni, come Manfred Berg, docente all’ateneo di Heidelberg, qualificano quell’avvenimento come un effettivo attacco a sorpresa, altri però non la pensano così. Insomma, non c’è un accordo fra gli storici di paesi differenti, ma neanche tra quelli di lingua tedesca, da cui emerga ciò che la maggioranza di loro pensi su Pearl Harbor. L’affermazione che si legge su Wikipedia è infondata. Anche il quotidiano «Neue Zürcher Zeitung» fuorvia i suoi lettori scrivendo: «La sorpresa fu totale. L’attacco colse impreparati gli americani». Ma non è vero. Gli unici a essere sorpresi furono il popolo americano e il Congresso, a differenza del presidente e dei cospiratori che lo assecondavano. Roosevelt e i suoi collaboratori più stretti avevano fatto di tutto affinché fosse il Giappone a sparare il primo colpo contro gli USA. Ci si dà incredibilmente molto da fare, per ingannare le masse su Pearl Harbor. Il film omonimo, costato 130 milioni di dollari e interpretato dai famosi attori Ben Affleck e Kate Beckinsale, uscito nei cinema statunitensi nel 2001, ricostruisce l’attacco giapponese come una sorpresa assoluta ed è stato visto da milioni di persone. Sono informati meglio i lettori della rivista «Rubikon», che in un articolo del 2018 scriveva correttamente: «Il presidente Roosevelt sapeva dell’attacco imminente a Pearl Harbor, ma non lo comunicò agli interessati»; e poi «sfruttò le reazioni alla strage sull’isola hawaiana per far accettare alla popolazione, sino ad allora riluttante, l’ingresso del paese nel conflitto mondiale». I fatti mostrano chiaramente che Roosevelt, subito dopo la rielezione, fece crescere apposta le tensioni col Giappone. L’Office of Naval Intelligence (ONI), il servizio segreto della Marina statunitense, conosceva i punti deboli dei giapponesi. Il 7 ottobre 1940 Arthur McCollum, un ufficiale dell’ONI, presentò un piano in otto fasi (il cosiddetto “bollettino delle otto azioni”) che illustrava come indurre il Giappone ad attaccare gliUSA. Roosevelt desiderava che fosse il Giappone a compiere la prima mossa, perché soltanto lo shock di un evento terribile avrebbe potuto convincere il popolo e il Congresso americani della necessità di entrare in guerra contro il Giappone e la Germania. Quel piano proponeva di «mandare in Oriente, nelle Filippine o a Singapore, una divisione di incrociatori pesanti a lungo raggio». Roosevelt accettò quella indicazione e tra marzo e luglio 1941 fece entrare forze navali speciali nelle acque territoriali giapponesi, calpestando il diritto internazionale, allo scopo di provocare il nemico. Tali provocazioni però non furono sufficienti a spingere il Giappone a compiere azioni militari contro gli USA, e le reazioni si limitarono alla protesta diplomatica per la violazione dei limiti delle acque territoriali. Un altro suggerimento, in quel piano provocatorio, era di «tenere la flotta principale degli Stati Uniti, attualmente nel Pacifico, nei pressi delle isole Hawaii»: cioè, si doveva spostare la flotta statunitense di stanza nell’Oceano Pacifico dalle basi sulla costa occidentale del paese per avvicinarla all’arcipelago giapponese. Roosevelt mise in atto anche questa indicazione, che costituiva il punto F del “bollettino delle otto azioni”. Il piano elaborato da McCollum per il servizio segreto della Marina proponeva anche di tagliare l’approvvigionamento di petrolio al Giappone, il tallone d’Achille di quel paese, che, come la Germania e l’Italia, nel sottosuolo del suo arcipelago non aveva giacimenti. Dato il tipo di guerra aggressiva che i giapponesi conducevano in Oriente, anch’essi erano totalmente dipendenti dalle importazioni petrolifere: queste ultime provenivano per l’80 per cento dagli USA, che all’epoca erano il maggior esportatore al mondo, e per il restante 20 per cento dalla colonia delle Indie orientali olandesi, quella che oggi si chiama Indonesia. Il Giappone importava materie prime anche dalla Manciuria, regione che ora è spartita fra Cina e Russia, e ai primi del Novecento vi costruì la ferrovia della Manciuria meridionale (costituendo la compagnia ferroviaria omonima) per trasportarle in Corea, da dove erano poi trasferite via mare in Giappone.
Nonostante la condotta bellica offensiva tenuta dal Giappone, gli USA continuarono a rifornire Tokyo di petrolio e durante la guerra civile in Cina sostennero anche Chiang Kai-shek, sino a quando, nell’ottobre del 1940, gli olandesi tagliarono le loro forniture ai giapponesi, incalzati in tal senso proprio dagli USA. Una delegazione giapponese si recò subito in Indonesia, accusò le autorità locali di essere delle semplici marionette di Washington e pretese la ripresa degli approvvigionamenti. Gli olandesi però si rifiutarono e fecero in modo che il Giappone non ricevesse mai più petrolio dall’Indonesia. Poco dopo, anche gli USA ridussero le loro esportazioni di petrolio al Giappone, gettandolo nel panico. Nel maggio 1941 venne proibita qualsiasi fornitura dalla costa orientale americana, ma non da quella occidentale, né dal golfo del Messico. Poi, il 25 luglio 1941, poco più di quattro mesi prima di Pearl Harbor, Roosevelt chiuse definitivamente il rubinetto. A quel punto nessuno negli USA poteva più fornire petrolio al Giappone e Harold Ickes, consulente di Roosevelt per le questioni legate al petrolio, disse che non sarebbe mai capitato un momento migliore di quello per bloccare le forniture. L’embargo fu una catastrofe per il Giappone. «Senza approvvigionamenti di petrolio le nostre navi non sarebbero state altro che spaventapasseri», protestò un ammiraglio giapponese. Aveva perfettamente ragione, e così anche i più tiepidi si decisero a sostenere il conflitto. Il missionario statunitense Eli Stanley Jones, intermediario non ufficiale tra i giapponesi e la Casa Bianca, intuì il gioco sporco di Roosevelt: «Non sono affatto sicuro che i massimi dirigenti del nostro governo vogliano davvero la pace. Sembra che alcuni di loro pensino: con questo embargo teniamo il Giappone per la gola e lo strangoleremo». A questo si aggiunse il congelamento di tutti i depositi giapponesi nelle banche statunitensi, attuato da J.P. Morgan Chase e da altri istituti di credito nel luglio del 1941. Inoltre gli USA imposero anche il blocco delle forniture di ferro e acciaio. «Sospendemmo l’erogazione di fondi e carburante e cessammo ogni commercio», spiegò Joseph Rochefort, ufficiale del servizio segreto della Marina addetto alle intercettazioni radio. «Stavamo sottoponendo il Giappone a forti pressioni. Non potevano trovare altra soluzione che entrare in guerra». Dato il lavoro che svolgeva, Rochefort era perfettamente informato sulle reazioni dei giapponesi e commentò così l’attacco a Pearl Harbor, che aveva causato la morte di 2.403 soldati statunitensi: «Era un prezzo modesto da pagare per compattare la nazione». Il primo ministro giapponese, il principe Fumimaro Konoe, era molto preoccupato per l’interruzione delle forniture di petrolio americane e per il confronto minaccioso con gli USA e chiese immediatamente a Roosevelt un incontro al vertice, ma il presidente glielo negò. I capi dell’Esercito giapponese erano perplessi. «In questo momento il petrolio è il tallone d’Achille della nostra forza nazionale ed efficienza bellica», dichiararono i più alti in grado all’imperatore giapponese il 6 settembre 1941. «Più passa il tempo e minore diventa la nostra capacità di condurre la guerra; l’impero si indebolirà a livello militare». Secondo il ministro degli Esteri Teijiro Toyoda, il Giappone era circondato da una catena che si stringeva sempre di più, forgiata sotto la guida e con la partecipazione dell’Inghilterra e degli USA, i quali «agiscono come un astuto drago apparentemente addormentato». Dopo il fallimento dell’iniziativa del primo ministro Konoe, il 16 ottobre 1941 il suo gabinetto diede le dimissioni e al governo subentrarono il generale Hideki Tojo e una serie di ufficiali più bellicisti. Il generale Tojo spiegò che per il Giappone rimaneva un’unica soluzione: occupare l’Indonesia, al fine di avere accesso diretto ai suoi giacimenti di petrolio. Dato che in Europa la Germania aveva occupato l’Olanda, il Giappone credeva che quella sua colonia, con poche difese, sarebbe stata una facile preda. Però i giapponesi sapevano anche che gli USA non avevano intenzione di lasciare loro tanto facilmente l’Indonesia e nemmeno gli altri domini coloniali controllati in Asia dai bianchi, a cominciare dalle Filippine, colonia statunitense. Tokyo era dell’opinione che solamente la flotta americana di stanza nel Pacifico poteva ancora ostacolare il loro programma di occupazione e decise quindi di attaccarla, prima che il combustibile delle navi da guerra giapponesi si esaurisse. L’ONI era riuscito a scovare e decifrare lo scambio di comunicazioni sia diplomatiche sia militari dei giapponesi senza che questi se ne accorgessero, come dimostra Robert Stinnett nel suo volume ricco di dettagli su Pearl Harbor. Il Giappone era circondato da stazioni americane di intercettazione delle comunicazioni radio, trasmesse su tutto il Pacifico. Tali stazioni si trovavano nelle Filippine, sulle isole di Guam, Midway, Wake, nelle Hawaii e sulla costa occidentale dell’America, a San Diego, San Francisco e in Alaska. Questo vasto sistema di controllo fu integrato da un intenso scambio di informazioni con analoghe stazioni britanniche, site a Hong Kong, Singapore e sull’isola di Vancouver, nella Columbia Britannica, nonché olandesi, a Batavia (più o meno corrispondente all’attuale Giacarta).

I dati intercettati erano estremamente preziosi e definiti scherzosamente “Magia” dal servizio segreto della Marina statunitense; a essi avevano accesso unicamente il presidente e i suoi collaboratori più stretti. Appena 35 uomini e una donna avevano accesso a questa “Magia”: soltanto quei congiurati erano a conoscenza dell’attacco che il Sol Levante avrebbe lanciato di lì a poco, ma non lo fecero sapere al popolo americano, né al Congresso. Erano tutti convinti che l’ingresso in guerra statunitense fosse giusto e importante. Di questa ristretta cerchia di potere faceva parte, oltre Roosevelt, anche il suo gabinetto, composto da individui scelti da lui stesso: il ministro della Guerra Henry Stimson, quello della Marina Frank Knox, il segretario di Stato Cordell Hull, il capo di stato maggiore George Marshall, il direttore del servizio segreto della Marina statunitense (ONI) Theodore Wilkinson con i collaboratori più stretti, e il direttore del servizio segreto dell’Esercito, il generale di brigata Sherman Miles. A costoro si aggiunge l’unica donna, Agnes Meyer Driscoll, la crittografa civile di rango più alto nella Marina statunitense. Solamente a guerra finita fu confermato «che il codice cifrato giapponese era stato decrittato molti mesi prima di Pearl Harbor, e che gli uomini che a Washington leggevano i messaggi in codice intercettati erano informati sui piani e sulle intenzioni dei giapponesi, quasi come se avessero preso parte al consiglio di guerra a Tokyo», come scrive George Morgenstern. Per tenere nascosto il più a lungo possibile il loro segreto, la Marina statunitense impose il silenzio a tutti gli operatori radio e a tutti i crittografi che avevano collaborato all’intercettazione e all’analisi delle comunicazioni radio giapponesi. Chiunque avesse fatto trapelare qualcosa sul lavoro di intercettazione delle radiocomunicazioni condotto con esito soddisfacente rischiava di finire in carcere e di vedersi annullare la pensione. Tale minaccia funzionò: la maggior parte delle persone coinvolte in quelle operazioni si portò il segreto nella tomba.



Tratto dal libro "Breve storia dell’Impero Americano" (Titolo originale: Imperium USA. Die skrupellose Weltmacht, ovvero "Impero USA. Una potenza senza scrupoli"), Fazi Editore, 2021. Daniele Ganser è uno storico e ricercatore svizzero specializzato in storia contemporanea e politica internazionale. Insegna all'Università di San Gallo.

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Aggiungo il bellissimo "Pearl Harbor" del tedesco Peter Herde, che descrive in maniera magistrale la storia diplomatica e come il Giappone giunse, gradualmente, a non poter fare altro che entrare in guerra, o rimanere senza carburante per l'esercito. Dimostra come, da decenni, chi vuole informarsi, sa, mentre il grande pubblico continua a riempirsi la testa con lo sterco fabbricato a Hollywood.
 

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