Avviso che quel che segue è un articolo particolarmente lungo. Ringrazio in anticipo chi avrà la pazienza di leggermi sino alla fine.


Sentendo una forte, istintiva simpatia verso il popolo armeno, non posso non provare un'amarezza profonda verso ciò che lo colpisce, e quindi cercherò, almeno a beneficio dei miei pochi lettori, di far capire qualcosa sul conflitto che ruota attorno all'ormai fu Repubblica di Artsakh, ovunque nota col nome doppiamente straniero di Nagorno Karabakh (la prima parola è russa, e significa “montano”, la seconda è azera).


Chi sono gli armeni? Dubito che il grande pubblico ne abbia idea. D'altronde, abitare i monti del Caucaso non li espone alle attenzioni del cinema né agli amori del jet-set come la California o le Hawaii. Eppure sono uno dei popoli più tenaci, forti e innamorati della propria identità di questo mondo. Che io sappia, un regno armeno è esistito almeno dal II secolo avanti Cristo, facendone quindi una delle entità statali ancora esistenti fra le più longeve della storia, ma di armeni come popolo parlava già Erodoto nel V secolo. Greci e macedoni, romani e parti, bizantini e arabi si sono fatti la guerra da una parte all'altra di quei monti impraticabili (tanto che, nella lingua greca e poi latina, la parola “Caucaso” passò per definizione a significare “montagne inaccessibili”), e il regno armeno si barcamenò per secoli fra gli uni e gli altri, sottomettendosi a parole a tutti ma rimanendo fedele a nessuno, e finendo per generare il modo di dire “infido come un armeno”. Poi arrivò il cristianesimo, e mise radici là dove né le legioni di Roma né i cavalieri di Persia erano riusciti a rimanere a lungo. E nacque un altro primato armeno: quello di essere stata la prima nazione al mondo ad aver fatto di quella di Cristo la religione di Stato (bisogna dire che l'Etiopia vorrebbe insidiare questo record, ma per ora senza prove definitive). Da allora identità nazionale armena e fede cristiana si sono intrecciate in modo indissolubile per due millenni, contribuendo a mantenere viva l'identità di quel popolo là dove una caterva di altri, dagli ostrogoti ai bizantini, o sono scomparsi o hanno modificato radicalmente i propri connotati da essere irriconoscibili. Gli armeni, invece, ancora oggi mostrano i monasteri e le chiese risalenti a quei primi secoli ancora in funzione, abitati da fedeli e monaci che ne hanno consumato i pavimenti ma non l'anima. Con l'arrivo dell'Islam, invece, per gli armeni comparve un nemico che non ha mai cessato di minacciarne la stessa esistenza fisica, vista la caparbietà con cui hanno sempre rifiutato la prospettiva di abbracciare un'altra fede. Se coi bizantini i rapporti furono più o meno decenti, tanto che molti armeni andarono a popolare le regioni più meridionali e occidentali dell'impero, con gli arabi e ancor più coi turchi non ci fu mai pace. Quando i crociati di Goffredo di Lorena arrivarono ad Antiochia, trovarono un buon alleato negli armeni locali. Gente che non parlava la loro lingua, abitava in terre a loro sconosciute e obbediva a re stranieri: ma si riconobbero nella croce che anche loro portavano addosso, e per due secoli impugnarono insieme la spada contro allo stesso nemico, come già per l'impero d'Oriente. È in questo periodo che nasce anche il sodalizio con la Serenissima, tanto che il famoso San Lazzaro degli Armeni a Venezia esiste tutt'ora. Poi, con la caduta degli stati crociati, anche gli armeni persero ogni indipendenza: prima gli arabi e poi i turchi, iniziò un lungo periodo di sottomissione durato ininterrottamente dal XIV secolo al XX. Per la maggior parte del tempo, nonostante lo status di dhimmi infedeli, gli armeni poterono almeno continuare ad abitare nelle loro case e praticare le loro tipiche attività, fra cui il commercio. All'affacciarsi di nuove potenze cristiane nell'area, però, il quadro si modificò di nuovo. Francia e Inghilterra per le comunità sul Mediterraneo, e la Russia per quelle nel nucleo montano sul Caucaso presero sin dai primi anni del XIX secolo ad interessarsi agli armeni e ad ergersi a “protettori” loro e degli altri cristiani, più che altro per occupare e smembrare i territori dell'impero turco sempre più debole e sprofondante nel marasma politico-militare. Gli stessi turchi, dal canto loro, sentendosi minacciati, iniziarono a prendersela contro le minoranze, viste come cavalli di Troia dei nemici esterni. E diedero il via a ricorrenti esplosioni di violenza contro i cristiani in generale e gli armeni in particolare. I massacri del sultano Hamid, oggi del tutto dimenticati, si stima causarono la morte di un quarto di milione di armeni. 250.000 morti, più di tutte le vittime del secolo di conflitto arabo-israeliano, concentrate in un paio d'anni fra 1894 e 1896. Ma l'apice della violenza venne raggiunto nel 1915-16, mentre infuriava la Prima Guerra Mondiale: i turchi, respinti dai russi sul fronte caucasico, misero in atto uno dei genocidi più capillari e brutali della storia: forse un milione e mezzo di armeni furono uccisi, alla fine di torture, crocefissioni e stupri talmente efferati che persino i tedeschi, alleati dell'Impero Ottomano, cercarono di frenarne gli eccessi. A collaborare allegramente furono anche i curdi. Sì, proprio quei curdi che oggi piangono miseria e oppressione ad opera dei turchi, all'epoca si univano volontariamente, senza alcuna costrizione, e con foga si accanivano sulle lunghe colonne di superstiti armeni in marcia verso la deportazione, già provati dalla durezza del cammino attraverso i monti, ferendo a morte o spingendo nei dirupi quei disgraziati d'ambo i sessi ed ogni età, spesso appesantiti da catene di ferro, come gli schiavi o il bestiame razziato. Gli armeni scomparvero letteralmente dall'Anatolia orientale e meridionale, proprio quando, alla fine del conflitto, poté sorgere la repubblica di Armenia, il primo stato armeno indipendente da sei secoli a questa parte.


E qui inizia anche la storia del Nagorno-Karabakh. Già: se i servizi televisivi di cosiddetta informazione parlano di “trent'anni di conflitto”, come se tutto fosse iniziato appunto trent'anni fa, non si capirebbe affatto il perché di tanto odio senza fare un consistente salto indietro. Nel Caucaso, infatti, la mappatura delle etnie o anche solo delle lingue parlate è forse più difficile che in qualsiasi altra parte del mondo. “Il paradiso di ogni linguista”, è stato definito. Un paradiso che, per altri versi, rischia di precipitare nell'inferno ad ogni occasione. L'area abitata dagli armeni, infatti, è sempre andata ben oltre dagli angusti confini dell'attuale Repubblica di Armenia. E se ad occidente esistevano zone a forte presenza armena sino a Costantinopoli o Antiochia, ad est era il Mar Caspio a fare da confine. Baku, l'attuale capitale azera, sorse grazie al boom petrolifero della fine dell'800, e fu popolata in breve tempo da una composita popolazione di avventurieri, capitalisti d'assalto, operai e commercianti, la cui maggioranza era di lingua armena. E così per le zone più interne, già da millenni parte dell'Armenia storica. Nel marzo del 1918, a Brest Litovsk, la Russia bolscevica capitolava, e firmava con la Germania e i suoi alleati una pace con cui cedeva territori immensi: i Paesi Baltici, la Bielorussia, l'Ucraina, e la Transcaucasia. Con questo nome si intendevano tutte le terre a sud del Caucaso, ossia le attuali Georgia, Armenia e Azerbaigian. Tuttavia, i tedeschi non annessero nemmeno un pollice di territorio, preferendo che quelle zone venissero rette da governi amici ma autonomi. Ai turchi non andò giù, e invasero immediatamente la Transcaucasia. Allora accadde ad est quello che era appena accaduto ad ovest. Gli azeri, di ceppo e lingua turca e di religione mussulmana, accompagnarono le truppe turche scatenandosi contro a tutti gli armeni delle città e dei villaggi. A Baku gli eccidi infuriarono sino a che la presenza armena fu ridotta a zero (tutt'ora non ci sono zone a significativa popolazione armena nell'Azerbaigian. Si salvarono quelli asserragliati nella ridotta montana più vicino al confine armeno). E, quando poco dopo la Turchia seguì la Germania nella disfatta ritirando i propri eserciti e lasciando che la Russia di Lenin tornasse sul posto, finì, insieme allo sterminio, anche la breve autonomia armena. Se sotto agli zar le suddivisioni locali in governatorati non avevano alcuna pretesa di omogeneità etnica o linguistica, ma solo di comodità amministrativa, il potere sovietico, che metteva la “questione nazionale” spesso al centro dei dibattiti interni, si mise in testa di creare invece un conglomerato di Repubbliche caratterizzate dal binomio fra socialismo e identità nazionale. Con risultati a lungo piuttosto scarsi, dato che all'interno dell'URSS non faceva alcuna differenza risiedere in una repubblica piuttosto che in un altra, essendo tutti i cittadini legalmente allo stesso livello, ma che avrebbe creato per il futuro situazioni catastrofiche di cui siamo tutti testimoni. Quella che venne inventata allora come Ucraina, ad esempio, incluse una serie di province compattamente russofone, cosa che si accentuò quando ad esse si unì, negli anni '50, la Repubblica autonoma di Crimea, che mai aveva avuto a che fare con Kiev, e che mise le basi per l'attuale guerra. Allo stesso modo, il Nagorno-Karabakh fu “regalato” all'Azerbaigian più che altro per ingraziarsi una popolazione piuttosto ostile al potere sovietico, associato nel pensiero generale agli armeni. Un procedimento spregiudicato e opportunista, che mostra la totale indifferenza alle ragioni dell'identità nazionale. Ma, come detto, finché durò il potere sovietico poco o nulla cambiava per gli armeni che vivevano in Azerbaigian. Due parole su quest'ultimo: benché abitato da popolazioni di etnia turca, il territorio di questa repubblica non fu mai unificato in uno Stato di qualche tipo, ma sempre diviso fra potentati locali e sottomesso ora alla Persia, ora alla Russia o alla Turchia. L'insorgere delle coscienze nazionali alla fine del XIX secolo rinfocolò la tradizionale ostilità religiosa, ed esplose, ancora una volta, col dissolversi del potere sovietico. Stretti fra un genocidio e l'altro, qualche milione di armeni emigrò, andando a costituire una folta comunità della diaspora, soprattutto in Francia e Stati Uniti.


All'inizio degli anni '90, poi, parve ripetersi quello che era accaduto nel 1918: Mosca tramontava, i suoi soldati non garantivano più l'ordine, e gli azeri, come gli altri, proclamavano la propria indipendenza. Solo che la pretendevano coi confini della repubblica sovietica, incluso quindi il territorio che gli armeni chiamano Artsakh. I suoi abitanti chiedevano invece la riunione all'Armenia nuovamente indipendente, come sarebbe stato logico sotto a tutti i punti di vista, ma la risposta azera fu la repressione militare. A quel punto solo le armi potevano risolvere la questione, e, come sentii dire da un ex-combattente, “in un secolo, un genocidio basta e avanza”. Gli azeri infatti martellarono i principali centri abitati, fra cui Stepanakert, la capitale, con l'artiglieria, per mesi e poi per anni. I locali, che combatterono insieme agli armeni di là dal confine come un unico popolo, avevano dalla loro il valore. E vinsero. Dal 1994 l'Artsakh fu un territorio indipendente, ma mai avvenne l'annessione all'Armenia, e nessuno a parte Erevan lo riconobbe.


Visitai l'Armenia nel 2016, e ovviamente non potei resistere alla tentazione di andare sino a Stepanakert per vedere cosa ci fosse in uno “stato fantasma”. Di fantasma vidi solo le moschee vuote e abbandonate, con ancora i segni dei combattimenti di decenni prima. Erano la testimonianza visibile dell'arretramento dell'Islam, qualcosa di antico e di inaudito per un'imbelle e isterica Europa a fine corsa. Ricordo un posto in cui, per molti versi, il tempo sembrava fermatosi agli anni '80 e si respirava ancora un'aria sovietica, in cui in pieno inverno per avere l'acqua calda si facevano le acrobazie ed era possibile che un tassinaro che ti aveva accompagnato a timbrare il visto direttamente al Ministero degli Esteri ti presentasse al ministro in persona, uno che parlava una decina di lingue (e non vi dico che umiliazione provai paragonandolo al nostro, che all'epoca era Alfano. Oggi sarebbe lo stesso). E ricordo gente dall'aspetto e dai modi molto modesti, amichevoli, occupatissimi a mettere insieme il pranzo con la cena ma pronti ad invitarti ad una tavola piena di conserve fatte in casa. Ricordo la visita a montagne piene di silenzio e santuari antichi dai nomi sconosciuti che per loro erano famosi quanto Lourdes. E ricordo anche la singolare assenza di militari, in un luogo minacciato dalla guerra ad ogni istante. Sembrava tutto fermo a trent'anni prima.


Ma l'Azerbaigian non era rimasto fermo per trent'anni. Aveva stretto rapporti diplomatici e militari coi grandi vicini islamici Turchia e Iran, aveva sfruttato bene l'immensa ricchezza di gas e petrolio, e l'aveva usata per riempirsi di armi di eccellente qualità e avanzata tecnologia, senza esitare neanche a legarsi ad Israele, rischiando dissapori con Teheran. Così, quando nell'autunno del 2020 lanciò un'offensiva su larga scala, fu subito chiaro che stavolta la storia sarebbe stata diversa. Si riprese in pochi giorni la maggior aprte della provincia. Ha poi aspettato sino a quando, in Armenia, un presidente stupido o manipolato ha offeso l'unico alleato naturale, la Russia, per “riavvicinarsi” agli Stati Uniti, dove probabilmente neppure al Dipartimento di Stato sanno dove si trovi l'Armenia, e se lo sanno non glie ne importa nulla. Dopodiché hanno dato, le scorse settimane, il colpo di grazia.


Non mi dilungherò sulle operazioni militari di allora e di oggi. Le forze dell'Artsakh sono state schiacciate, il divario tecnologico e umano era eccessivo, e neppure l'Armenia, unico alleato possibile, ha alzato un dito. La Russia ha cercato di sostenere gli armeni per quanto possibile, aveva delle truppe di interposizione, ma queste valgono solo quando da entrambe le parti c'è la volontà di tenersi separati. Questa volontà l'Azerbaigian non l'aveva più, anzi. E senza neppure una frontiera o un corridoio aereo tramite il quale inviare supporto, per i russi è come se l'Artsakh e l'Armenia si trovassero sulla Luna.


Oggi la Repubblica di Arstakh ha cessato di esistere. Un popolo, quello armeno, di fronte alla prospettiva del servaggio o dello sterminio, così vivi nella coscienza nazionale, sta affrontando l'ennesimo esodo della sua lunga e martoriata storia. Nell'indifferenza generale, quando l'ONU e l'Unione Europea tacciono per manifesta indifferenza alle sue sorti, mentre persino il cosiddetto Pontefice Massimo non ha avuto più di un paio di parole vuote per la sorte della prima nazione cristiana della storia, e in cui alcuni fogliacci di carta igienica stampata, da noi, addirittura hanno avuto il coraggio di gongolare per “una sconfitta di Putin”, qualcosa come centoventimila armeni sta attraversando i monti del Caucaso alla ricerca di una madrepatria in cui sentirsi sicuri. L'Armenia non ha gas, non ha petrolio, non ha oro o diamanti, non è il crocevia di niente che non sia la sua storia, la sua cultura e la sua lingua, tutte cose che nel mondo globalizzato della finanza internazionale non interessano a nessuno e non hanno valore. Se volesse, L'Azerbaigian potrebbe spazzare via anche quel che resta della presenza cristiana nel cuore del Caucaso. Probabilmente non ha interesse a farlo, ed è la fortuna degli armeni, perché se fosse per noi, quegli occidentali che hanno dimenticato di essere stati guerrieri, nobili, cristiani, e sanno solo di dover adorare cose come i consumi, il debito pubblico, i parametri e i mercati, gli armeni, che già lord Byron ammirò, non valgono niente. Noi ci impietosiamo solo se gli esuli sono africani ben pasciuti e vocianti. Istupiditi da una cappa di disinformazione e propaganda perenne, dilapidiamo miliardi a sostegno di uno dei governi più corrotti al mondo (bisognerà che qualcuno prima o poi scriva come gli oligarchi ucraini stanno spendendo i nostri fondi) come se ne andasse della nostra esistenza, e non battiamo ciglio se nel mezzo del Caucaso, dove dai tempi di Alessandro è passata la nostra storia, muore un pezzo della nostra anima, forse il migliore. Naturalmente pagheremo anche questo, ma non serve certo di consolazione di fronte al doppio disastro in corso, il loro e il nostro.


La fortuna degli armeni è che, a differenza nostra, hanno ancora una fede profonda in Dio. Loro, di fronte alla catastrofe, possono sperare almeno in un miracolo. Noi no.




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Friedrich von Tannenberg
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