Molti credono che l'opinione che ci formiamo sui fatti, dipenda dai fatti. E invece no, dipende dal nostro carattere, forgiato ogni giorno da esperienze di vita vissuta, la propria e quella dei nostri cari. Il mio carattere, per dire, ha moltissime peculiarità, una di queste è quella di dubitare del Bene, della Bontà, dell'Onestà e di stare spesso dalla parte dei cattivi. Mi accade, per esempio, una cosa molto strana: quando c'è un omicidio, tendo a riservare la mia empatia all'omicida. Lo schema si rompe solo quando la vittima è un bambino e lì naturalmente non c'è giustificazione che tenga, sebbene poi qualche volta capiti, come nel caso del mostro di Foligno, che anche quella forma di Male suprema quale può essere incrudelire su due bambini innocenti, derivi dagli abusi subiti dal mostro nella sua prima infanzia, anche se naturalmente nessun trauma dà alcuna autorizzazione a diventare un mostro, né è detto che lo si diventi. Ma in tutti gli altri casi, quando vedo un delitto in cui la vittima è una persona maggiorenne e capace di intendere e di volere, la prima cosa che mi chiedo è: ma cosa può spingere una persona ad uccidere? Quale provocazione? Perché un individuo arriva a tal punto da commettere un gesto che lui per primo sa che avrà ripercussioni su tutta la sua vita, materiali se sarà scoperto, morali se la farà franca?
Naturalmente col covid lo schema si è ripetuto. Un po' perché comunque la vicenda si presta ad essere equivocata, ma soprattutto perché quando ho visto le truppe cammellate dei media sostenere le tesi ufficiali (dopo aver sostenuto in una primissima fase proprio quelle negazioniste, cosa che pochi ricordano) secondo le quali era giusto non solo sacrificare le libertà individuali di centinaia di milioni di persone ma anche criminalizzare ogni dissenso, ho subito rispolverato i miei antichi riflessi. Quelli che mi portavano a trovare molta più sintonia con gli ultimi della classe, con i paria del paesello. Solo che stavolta non ero più soltanto l'avvocato del diavolo. Ero il diavolo in persona, ero dalla parte dei cattivi, ero il non vaccinato, il negazionista. Quello è stato il momento dove l'ostilità già latente seminata dai media contro chiunque non si adeguasse alle sorsate dei propinati, è esplosa definitivamente. C'è chi ha auspicato i campi di concentramento per noi, chi di farci finire in galera, chi "chiuderci in casa come dei sorci". E a parlare così erano i Buoni che, ispirati dal Bene, volevano per tutti gli altri ogni male. Dopo quella vicenda, che per me è stato un autentico spartiacque in tutto e per tutto, che ha posto fine ad amicizie e parentele, che ha distrutto ogni mia fiducia (per la verità già compromessa prima) nella classe politica attuale, la mia frattura col dolce mondo della bontà si è definitivamente manifestata, ho approfondito le vicende di molti criminali, a scoprire se dietro la loro storia non ci fosse qualche bugia raccontata da loro, dai buoni. I cattivi per me erano diventati i buoni, i buoni cattivi. Totò Riina all'improvviso non era più per me un assassino che aveva mandato a morte centinaia di persone ma un povero contadino reso orfano da una bomba messa dagli americani sul suo terreno, e divenuto rabbioso per colpa della fame e della miseria.

Chi leggerà questo articolo penserà di avere a che fare col vicario di Satana in terra. Invece la questione in merito è un po' più complessa. Perché odio la bontà? Perché simpatizzo con i cattivi? A questi quesiti mi sono dato una risposta. In realtà non odio la bontà. Ne odio semmai le esibizioni pedagogiche. Odio che un'intera società possa trovare "buone" cose che non solo non è garantito che lo siano, ma anzi a volte sembrano persino denotare una profonda cattiveria. Per diversi anni ho gestito senza esibirlo in giro un'associazione che si occupava di disabili. L'ho fondata, l'ho sostenuta finanziariamente (anche quando non me lo sarei potuto permettere) quando lavoravo in giro per il mondo, costasse quel che costasse la connessione, mi collegavo per riunirmi in webcam con chi mi aiutava, e a quei tempi la connessione, quel po' che c'era, si pagava cara. Insomma, ho fatto un bel po' di sacrifici. Voi pensate che venissi ricompensato per quel che facevo almeno moralmente? Ma neanche per sogno! I parenti dei disabili mi trattavano una chiavica, sfruttandomi come una bestia da soma, minacciando me - che non prendevo nulla, salvo gli sgravi fiscali per le spese, e comunque non soldi loro - ogni cinque minuti di azioni legali. Curiosamente, ma anche no, gli stessi che mi hanno reso la vita un inferno per qualcosa che io facevo senza alcun tornaconto, oggi sui loro profili Facebook fanno lezioni di morale, tutti con la mascherina, tutti di sinistra. Tanto per rendervi l’idea.
In realtà, razionalizzando, il vero problema della bontà non è di essere buona, ma di essere praticata da cattivi che la usano per tornaconti che non hanno nulla a che fare con la bellezza di donare al proprio prossimo qualcosa di sé nell'idea che il mondo possa essere migliore, ma per averne un ritorno, di immagine ed economico. Non a caso si parla di "compassionate capitalism", concetto di derivazione americana (perché noi dagli Stati Uniti non importiamo le tante cose belle che pure potremmo prendere da loro, ma solo il peggio) e che nasce proprio dal fatto che la beneficenza, in un paese con pochissimo welfare, è soggetta a forti defiscalizzazioni. In Italia, essendoci uno stato sociale, tutto questo viene annacquato. Così il benefattore italiano non viene visto come uno che, per convenienza personale, aiuta a tenere in piedi un sistema, dato che esso in teoria dovrebbe già tenersi in piedi con soldi pubblici (gli italiani fanno già beneficenza, obbligatoria, pagando le tasse, per dire). Rimane il ritorno reputazionale che si estrinseca nella melassa complimentistica che ripaga l’ego del benefattore con articoli celebrativi di giornale, post commossi di influencer patinati e lo tsunami di lodi a destra e a manca. Qualcosa che la commedia Tolo Tolo di Checco Zalone ben affresca quando dileggia il fotoreporter francese che va a fare il pavone in Africa, fingendo di interessarsi a quei problemi.

E questo aspetto può applicarsi a tutti gli altri aspetti in cui "simpatizzo per il cattivo". Qui c'è un'altra esperienza diretta: un delitto passionale che vide come protagonisti due persone - l'assassino e la vittima - di cui ero buon amico. Lei, la vittima, era una splendida ragazza corteggiatissima da tutti, lui un allievo ufficiale della guardia di Finanza, certo non bello né affascinante, un tipo, ma tra i due c'era un abisso. La storia l'hanno sempre presentata come lei che era innamoratissima di lui e lui che se la tirava un po', salvo poi lei stanca delle sue giravolte, decidere di lasciarlo. Io che conoscevo entrambi e la loro storia, sapevo benissimo che le cose erano all'opposto: lei, che del resto era nel giro di Miss Italia, avrebbe potuto rimpiazzarlo in qualsiasi momento, se la tirava molto e lo teneva sulla corda, e lui, molto meno attraente, a furia di stare sulla graticola, ad un certo punto perse la testa e la uccise. Cosa ovviamente da condannare, come poi è avvenuto, visto che sono passati più di quindici anni e lui fa ancora la spola tra galera e servizi sociali vari - o comunque è libero ma da poco tempo, non lo so esattamente, non lo frequento da allora - ma la vera domanda è: perché i media raccontavano la menzognera storia che tra i due era lui a tenerla sulla graticola? E qui ecco la bontà calare la sua maschera e riproporre l'ormai stantio cliché del maschio bianco cattivo, patriarcale, geloso fino all'omicidio, senza nemmeno provare a chiedersi se lei non possa, in una qualche misura, aver giocato un po' troppo con i suoi nervi. E così ho ripensato a tutte le volte, per fortuna confinate nel passato remoto (oggi chiunque voglia conquistare un posto nella mia vita, fatica le proverbiali sette camicie) che per colpa di qualche angheria da parte della lei di turno, ho rischiato di perdere la testa e fare sciocchezze. Poi certo l'omicidio resta qualcosa di orrendo, ma quante volte la vittima non fa in modo di mettersi nelle condizioni di scatenare certe situazioni?

Potremmo proseguire all'infinito ma il punto è proprio questo. Non sempre i buoni sono davvero buoni e non sempre i cattivi sono davvero cattivi. Spesso le vittime dei cattivi sono ancora più cattivi dei cattivi stessi. E fin qui non c'è nulla di strano perché Bene e Male spesso si confondono e sovrappongono. In ognuno di noi c'è un angelo e un demone, che le circostanze della vita possono svegliare alternativamente o addirittura contemporaneamente.
Ma mentre i cattivi spesso sono tali perché la loro natura li porta a sbagliare, a commettere errori gravi - spesso anche delitti orrendi - viceversa c'è nella celebrazione del buono qualcosa di più dell'irritazione dovuta ad un'azione cattiva. Perché la vera bontà si pratica in segreto, a proprie spese, lontani dalle celebrazioni mediatiche. Non è fatta di gesti eclatanti ma si caratterizza per un atteggiamento positivo verso la vita, per il dare senza aspettarsi rigidamente qualcosa in cambio, per il vivere all'insegna di un'equilibrio con chi ci è attorno. E' un atteggiamento più che un fatto specifico. Perché a parte la banale considerazione che spesso la beneficenza può essere un business, fino al caso paradossale di Soumahoro, la realtà è che quando una buona azione viene strombazzata al mondo intero, perde la sua dimensione effettiva di gesto dettato dalla bontà e diventa un affare redditizio, sia che si manifesti in ritorni economici, che di immagine. E la bontà patinata odierna spesso è molto più figlia di queste cose che di una reale predisposizione al Bene.

Se la bontà davvero esiste, ha pessimi sponsor, che finanziano la campagna vaccinale, quella climatica, quella ucraina, facendo sentire così sbagliato chi, senza essere per forza il rappresentante del Male, ha semplicemente un'altra idea delle cose della vita, da indurlo a schierarsi con i cattivi. Non è solo una mia caratteristica. Joker, nei fumetti che leggevo da ragazzino, era il nemico di Batman. Personaggio che odiavo, lugubre, un vincente che non mi emozionava. Il Joker invece, quello vero dei fumetti - non quello psicopatizzato dal recente orrendo film al fine di legittimare le brutture della società americana - nonostante fosse di gran lunga più intelligente del pedante Batman, con tutti i suoi trucchi e le sue genialate, era destinato a soccombere.
Tuttavia, quando su di una rivista americana che pubblicava questi fumetti, fu fatto un sondaggio fra i lettori su chi avessero voluto far morire fra i due storici nemici, la stragrande maggioranza dei lettori scrisse che avrebbe preferito la morte del pipistrello, ed infatti la saga di Batman finì con la vittoria finale del Joker, ma in Italia non l'hanno mai pubblicata.
Insomma un perdente di successo. Che non sarebbe piaciuto al PD.

Comments

All'inizio credevo si trattasse di demoni interiori che facevano capolino per poi rientrare mestamente ma poi,man mano che leggevo il tuo pezzo,riflettevo su quanta ragione tu avessi nello sviscerare l'animo umano.
Complimenti Franco.
P.S. ora mi trucco da Joker e vedo di fare qualche carneficina tanto non è detto che io sia cattivo e le mie vittime, prese a casaccio, degli stinchi di santo 🤣🤣🤣. Si fa per scherzare eh 😄
 
Secondo me l'equivoco, da te evocato anche se non focalizzato, è sulla questione "egoismo vs altruismo". Cioè l'idea che ci siano delle persone che fanno le cose per sé, e delle persone che le fanno per gli altri. Ma questo non è affatto vero. Che sia per tornaconto mediatico o economico, per senso di colpa o finanche per la soddisfazione personale di "aver fatto del bene" in silenzio, tutti noi facciamo esattamente quello che nel nostro intimo, talvolta a nostra insaputa, riteniamo che sia utile a noi stessi - prima ancora che agli altri.

Una volta ho parlato con una persona che ha lavorato nel campo del volontariato. Mi ha detto che, quando si trattava di selezionare i volontari, se questi non sapevano spiegare perché volevano fare i volontari (cioè la ragione che li spingeva personalmente e intimamente, e non ragioni "esterne" tipo "aiutare gli altri" o "portare giustizia nel mondo"), allora li scartava senza indugio. Ci penso spesso e mi sembra una cosa sensata: se non sei consapevole delle ragioni "egoistiche" per cui fai una certa cosa, sei del tutto fuori controllo e non hai più limiti su quello che è giusto o non è giusto fare (se lo fai "per il bene della collettività" quale motivo e quale danno potrà mai fermarti dal perseguirlo?). Ed è proprio quello che è successo col covid: gente del tutto inconsapevole delle proprie spinte egoistiche, che ha proiettato sul mondo tutto il proprio egoismo negato.
 
Chi si sacrifica per qualcuno ha la sindrome di Wendy. Chi eccede nella bontà ha la sindrome del martire. Sono patologie riconosciute dagli psicologi e ce ne sono molte altre. Io pratico un sano egocentrismo partendo dall'idea che se io sto bene chi mi é vicino sta bene perché riconosce la mia sincerità comportamentale e sa che se aiuto qualcuno lo faccio non perché devo, o perché mi fa pena, o perché voglio fare del bene, ma perché semplicemente lo posso fare. Buono per me é l'onesto che innanzitutto lo é nei confronti di se stesso.
 
"In realtà, razionalizzando, il vero problema della bontà non è di essere buona, ma di essere praticata da cattivi che la usano per tornaconti che non hanno nulla a che fare con la bellezza di donare al proprio prossimo qualcosa di sé nell'idea che il mondo possa essere migliore, ma per averne un ritorno, di immagine ed economico. "

Io credo che questo riassuma perfettamente la tua (e mia) speranza e la tua (e mia) disillusione.

Leggo alcuni commenti e non condivido chi riduce le Buone Azioni ad esclusive esigenze di autoappagamento.
Condivido che l'autoappagamento sia una delle motivazioni, ma non la sola, c'è anche chi spera di contribuire a costruire un universo migliore per tutti. E' pericolosa questa speranza? Ci si chiede dunque quale sarà il loro limite? Chi li fermerà? Credo si cada nel relativismo nichilista dove la non azione ha senso quanto l'azione anzi, ha più senso ma, a me hanno insegnato che solo chi fa sbaglia, chi non fa critica.
 

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Franco Marino
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