È attualmente in corso il cosiddetto “Black history month”, ossia il Mese della Storia Nera, iniziativa grottesca che solo in una società cerebralmente fusa e che va avanti a massicce dosi di sensi di colpa e autoflagellazioni trova posto. Basti pensare a che effetto farebbe un “Mese della Storia Asiatica”, anche in società in cui l'immigrazione da quel continente sia stata significativa: che senso avrebbe mettere in uno stesso calderone siriani, indiani, cinesi e filippini? Già si irritano cinesi e giapponesi a venir confusi gli uni con gli altri... Invece gettare insieme il centinaio e più di etnie africane confluite nel Nuovo e Vecchio continente trattandole come un amalgama omogenea pare sensato ai mezzi di comunicazione più servili della storia. Ma l'occasione è stata troppo ghiotta perché qualcuno, fra gli organizzatori, non rimettesse in giro la discussione su una pretesa che è ancora più grottesca, e che salta fuori a giro, ogni pochi anni, ossia quella sul risarcimento “dovuto” ai discendenti degli schiavi per la tratta a cui furono sottoposti i loro antenati.

È una discussione piuttosto insidiosa, anche perché, grazie alla sua natura indefinibile, si presta a più di un punto di manipolabilità. Ed è usata in modo magari rozzo, ma che non manca di imporsi per qualche periodo, in attesa probabilmente che l'opinione pubblica sia anestetizzata abbastanza perché divenga uno dei punti all'ordine del giorno per portare avanti l'agenda globalista che tanto bene ci sta facendo. Intanto si può intendere come risarcimento “interno”, ossia da parte dei discendenti delle famiglie che possedevano schiavi, verso i discendenti degli schiavi stessi. Una situazione che fa strame di qualsiasi concetto giuridico moderno, e che ha come esempio più prossimo la colpa biblica che fa sì che i figli paghino le colpe dei padri sino alla terza e quarta generazione (Es. 20, 5-6), come si vede nulla di particolarmente vicino ai principi giuridici attualmente più alla moda. Si tratterebbe, in soldoni, di far sì che gente che non ha mai posseduto uno schiavo paghi ad altra gente che non è mai stata schiava un risarcimento per un danno che quest'ultima non ha mai subito. So che fa ridere, ma ci sono davvero persone che lo stanno sostenendo seriamente, e c'è il grosso rischio che molte altre siano pronte a prenderle sul serio.

L'altra, più vecchia e sempre in auge, è quella che vorrebbe che a pagare fossero i Paesi occidentali, e non solo quelli che furono principalmente attivi nella tratta degli schiavi, ma tutti, e che a ricevere i soldi siano i Paesi africani, e non solo quelli che sorgono nelle aree da cui provenivano maggiormente gli schiavi, ma tutti. La scarsa correttezza del ragionamento è evidente: perché paesi che non diedero alcun contributo al triste fenomeno, magari perché all'epoca neppure esistevano, come l'Italia, o perché proprio non partecipavano, come Austria e Polonia, dovrebbero sborsare dei denari per ripagare un danno che non hanno fatto né per rimborsare un profitto a cui non hanno partecipato? Discutendone con persone di orientamenti vari, anche se mai nettamente progressista (questi si limitavano a tacciarmi di “negazionismo” e ad abbandonare il campo), la spiegazione più accettabile era che, avendo l'Europa e il Nordamerica tratto in generale un profitto dal commercio transatlantico, dovrebbero rimborsare in solido chi per quel profitto si è ritrovato spopolato. Ma le cose non starebbero affatto in questo modo, e basterebbe un analisi poco più che superficiale a come spiegavano il commercio triangolare transatlantico alle medie per capirlo. Come chiunque ricorderà, soprattutto gli insegnanti di solida fede progressista ci tenevano molto a informare di come le navi negriere (europee) lasciavano le coste africane cariche di schiavi, li vendessero nelle Americhe, ripartissero cariche di spezie e prodotti coloniali (thé, caffé, cacao, zucchero...) vendendoli in Europa, e tornassero in Africa piene di soldi e prodotti finiti da barattare con nuovi schiavi, chiudendo il cerchio. Se le navi fossero state le stesse, o almeno di proprietà degli stessi soggetti, il ragionamento sarebbe stato abbastanza lineare: il commercio degli schiavi faceva capo all'Europa che se ne avvantaggiava in più modi. Ma è del tutto improbabile che delle navi negriere, adibite al trasporto di esseri umani stipati, per ragioni di spazio, su più piani, potessero poi ospitare in quelle stesse stive cacao o caffé, che si trasportavano in condizioni molto diverse. Ed è molto più probabile che chi scaricava negri in Brasile o in Virginia, poi tornasse indietro verso il Golfo di Guinea per fare un altro carico, reinvestendo direttamente i profitti residui da quello che era rimasto dopo averne sperperato buona parte nei porti americani (sarebbe surreale pensare ai negrieri come a buoni padri di famiglia che accumulassero oculatamente i guadagni in vista di un diverso tipo di investimenti in Europa, ed era tanto se quello che si salvava dalle taverne o dai bordelli bastava per mantenersi durante la breve, difficile vecchiaia dei secoli XVI-XVIII, quando un uomo di 60 anni era visto come estremamente vecchio). Ma anche ammettendo che quel tipo di commercio fosse così bene organizzato, sarebbe illogico pretendere che l'Europa e il Nordamerica si siano sviluppati grazie allo schiavismo. Semmai il contrario: l'uso di schiavi fu sempre un ostacolo all'adozione di macchinari ed è universalmente riconosciuto che una rivoluzione industriale fu abortita in epoca romana proprio a causa dell'abbondanza di schiavi, che portò a far cadere nell'oblio tutte quelle conoscenze scientifiche raggiunte in età ellenistica, inclusa la forza vapore. E infatti, mano a mano che la produzione industriale basata sui macchinari si espandeva, lo schiavismo recedeva sino alla totale abolizione, e non è un caso che essa durò di più là dove la meccanizzazione arrivò più tardi, come in Brasile e nell'impero ottomano.

Ma sono concetti che non toccano la retorica di chi propaganda un colossale trasferimento di risorse dietro al debole paravento della giustizia e dell'antirazzismo. Perché alla fine di questo si tratta: la pretesa di incassare cifre enormi senza lavorare, e senza nessuna giustificazione che non sia ideologica. Altrimenti non si capisce perché la richiesta vada a colpire i soliti Paesi occidentali ricchi. Chiunque abbia approfondito la storia dello schiavismo moderno sa che gli arabi e i turchi furono attivissimi, per secoli, nella tratta dall'Africa subsahariana verso il Nordafrica e il Vicino Oriente. C'è un motivo per il quale nessuno ha pensato di chiedere soldi ad Erdogan o a re Salman, se non la certezza di venir mandati a quel paese? Ma non basta. I negrieri europei non si spingevano nell'interno dell'Africa a catturare i loro schiavi. Non ne avevano né il tempo né le risorse. Questo era un lavoro che lasciavano all'altro grande anello della catena, ossia agli stessi africani. Perché gli africani erano fatti schiavi inizialmente da altri africani, negri come loro, magari dei villaggi o delle comunità vicine, che conoscevano il territorio, l'ubicazione dei centri abitati, le piste da seguire, la lingua e le usanze locali, e sapevano molto meglio di chiunque altro come fare una buona caccia da portare verso i porti in cui avrebbero scambiato i propri fratelli con alcolici, fucili o monete d'oro. Sono tutt'ora noti i nomi di individui che, all'apice della tratta, costruirono, in Africa, immense ricchezze, non tralasciando di possedere un proprio stuolo di schiavi nei maggiori centri dell'attuale Nigeria. Che facciamo, li lasciamo perdere? O scavare per mettere alla luce le complicità extraeuropee nel fenomeno odioso dello schiavismo è tacciabile di razzismo o negazionismo?

È quindi immediatamente evidente che la storia del risarcimento è solo una colossale mistificazione funzionale alla continua e martellante campagna tesa all'umiliazione e alla colpevolizzazione delle società occidentali, a cui partecipano gruppi come i BLM che sono nient'altro che organizzazioni terroristiche, e che mirano solo all'impoverimento materiale e culturale della comunità circostante col fine neppure troppo nascosto di sottometterla. Non se ne capirebbe altrimenti la logica, piena com'è di falle e incongruenze logiche, oltre che storiche e fattuali. Perché se è verissimo che lo schiavismo fu qualcosa di disumano, la tratta degli schiavi un fenomeno tragico e criminale, e che gli schiavi subirono sofferenze e umiliazioni indicibili, parlare oggi di risarcimenti è privo di ogni base, dato che chi non ha commesso alcun illecito non può essere considerato dovere un ristoro a chi non lo ha subito. Anzi. E le cose possono essere viste anche sotto ad una diversa angolatura.

Pensiamo ai luoghi da cui gli schiavi furono trasportati, e a come vissero coloro che vi rimasero. In genere si tratta di paesi come la Sierra Leone, la Liberia, la Nigeria, il Congo. Occupati dalle potenze europee attorno al penultimo decennio del XIX secolo, furono sottomessi alla legislazione coloniale, che a volte si rivelava abbastanza blanda (quella tedesca in Camerun e Togo, per dirne una), ma alle altre, come nel caso del Congo, fu più brutale e sfruttatrice che negli stessi Stati Uniti del sud (e non a caso ciò accadde nel periodo in cui a governare quel territorio fu un'impresa privata, che lo rinominò, in perfetto Galgenhumor, “Stato Libero del Congo”). Generalmente la schiavitù veniva abolita proprio dall'amministrazione coloniale europea, e c'è da dire che l'Italia fascista, nella sua campagna d'Etiopia, si trovò in guerra con forse l'ultimo stato al mondo in cui la schiavitù era ancora legale e diffusa, tant'è che la prima cosa che le autorità italiane facevano nei territori conquistati era abolirla (ma non ditelo in giro, o passerete per fascisti). Dopo l'indipendenza, quei paesi piombarono nel caos: dittature militari, guerre civili, corruzione endemica, denutrizione, emigrazione, violenza. A nascere donna si finiva infibulate già bambine e date in sposa a qualcuno con trent'anni in più, che magari di mogli ne aveva già altre quattro o cinque. Naturalmente in caso di violenza domestica non c'erano numeri verdi e assistenza psicologica, al massimo il suicidio. Nascendo uomo ci si risparmiava l'infibulazione, ma poco altro: facile che si venisse rapiti da qualche signore della guerra e mandati a scannarsi a colpi di kalashnikov o di machete in un qualsiasi conflitto intestino, così come è ancora facile ritrovarsi senza mani o piedi amputati dai guerriglieri di passaggio per evitare che si imbraccino poi le armi contro di loro, anche se si hanno solo dodici anni. Per entrambi, maschi e femmine, la prospettiva di finire schiavi sessuali di qualche capoccia locale è simile, e almeno in questo caso si sono raggiunte le pari opportunità. Morire per una qualsiasi infezione o per malattie debellate in Occidente da sessant'anni è ancora pane quotidiano, così come subire una violenza sessuale e morire di parto. Dichiararsi gay è cosa da aspiranti al suicidio, visto che li bruciano vivi, e a nascere albino si viene espulsi dalla comunità e picchiati a sangue da chiunque ne abbia voglia. Inesistente la sanità pubblica, in compenso si fa grande uso della stregoneria.

I discendenti da quegli schiavi negri, invece, dove si trovano a vivere? Negli Stati Uniti d'America. O in Brasile. Ossia in posti in cui, è vero, si spara, ma mai quanto in Sudafrica, dove il numero di omicidi supera quello brasiliano (che pure è altissimo) ma con una popolazione che ne è un quarto. Posti in cui ci sono strade, ospedali, scuole gratuite, apparati statali degni di questo nome, persino imprese in cui lavorare e nulla che somigli agli scagnozzi di Boko Haram. Direi che si può considerare un ottimo, onestissimo risarcimento.

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Friedrich von Tannenberg
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