2004: il fallimento dell’indagine di Kean e Hamilton
Il presidente George W. Bush e il vicepresidente Dick Cheney scelsero attentamente dieci individui, che non facevano neanche più parte del Parlamento, e affidarono loro l’indagine. In seguito, nel dicembre del 2002, Bush nominò l’ex governatore del New Jersey, Thomas Kean, capo della commissione investigativa. Come suo vice fu chiamato Lee Hamilton, che fino al 1999 era stato membro della Camera per lo Stato dell’Indiana. A Kean e Hamilton, insieme allo storico Philip Zelikow, risale la versione ufficiale dell’attacco terroristico, che presentarono il 22 luglio 2004 in un voluminoso rapporto finale di 567 pagine. Esso confermava la “versione-sorpresa” già esposta dal presidente Bush. Ma come arrivarono Kean, Hamilton e Zelikow a tale versione? Come hanno fatto a dimostrare che la colpa era dell’Afghanistan o di Osama Bin Laden? Nel corso della guerra lanciata contro l’Afghanistan subito dopo l’attacco, il 7 ottobre 2001, le truppe statunitensi avevano arrestato diversi musulmani, che vennero trasferiti nella base militare di Guantánamo, sull’isola di Cuba, dove subirono varie torture. Responsabile dei maltrattamenti a Guantánamo era la CIA, che usò tra l’altro la privazione del sonno e il waterboarding, in cui il detenuto viene immerso nell’acqua dandogli l’impressione orribile di affogare. La CIA fornì a Kean, Hamilton e Zelikow oltre 100 verbali di interrogatori condotti a Guantánamo: gli estensori del rapporto finale non erano stati di persona in quella base americana, ma fondarono ugualmente le loro deduzioni su quei verbali. Più di un quarto di tutte le note di cui è corredato quel rapporto rinviano a «rapporti dei servizi segreti». Fu torturato anche il supertestimone degli USA, il pakistano Khalid Shaykh Muhammad. Tuttavia si sa che la tortura non serve a scoprire la verità: infatti in seguito le vittime dichiararono di aver fornito quelle testimonianze soltanto per evitare ulteriori torture. Bene in vista nel dossier firmato da Kean e Hamilton avrebbe dovuto esserci scritto che il rapporto ufficiale sull’Undici Settembre si fondava sulla pratica della tortura. In seguito lo storico Philip Zelikow tentò di giustificare tale sistema discutibile, dichiarando che «la CIA ci ha impedito l’accesso diretto ai detenuti»; però nella ricerca storica quel modo di procedere non è ammesso. Qualunque aguzzino può scrivere un libro per sostenere una certa tesi, appoggiandosi al fatto che le sue vittime l’avrebbero confermata. Il rapporto finale stilato da Kean, Hamilton e Zelikow non è attendibile, dal momento che si basa su dichiarazioni estorte con la tortura. Inoltre in quel rapporto ufficiale non torna il conto dei grattacieli crollati a New York: manca completamente il World Trade Center 7, che non fu colpito da alcun velivolo. Si tratta di una grave mancanza. Quindi la storiografia ufficiale di Kean, Hamilton e Zelikow sull’Undici Settembre non può essere presa sul serio. Il fatto che Kean, Hamilton e Zelikow non abbiano fatto un’indagine seria fu chiaro anche ad alcuni membri più svegli della loro stessa commissione. Il primo a scoprire il tentativo di insabbiamento fu Max Cleland, che nella guerra del Vietnam aveva perso le gambe e un braccio, e poi era stato senatore per la Georgia. Per questi, la Casa Bianca avrebbe costantemente ostacolato l’indagine e sostenuto che l’Undici Settembre avesse qualcosa a che fare con l’Iraq: «Avevano un piano, andare in guerra contro l’Iraq, e dopo l’Undici Settembre hanno fatto esattamente quello, sono entrati in guerra», ha dichiarato Cleland. Il presidente decise quali documenti potesse visionare la commissione, e Kean, Hamilton e Zelikow si piegarono a questo diktat. «È ridicolo», ammise giustamente Cleland, ma le sue parole furono ignorate dai principali mezzi di informazione. Secondo lui, già la commissione Warren, chiamata a giudicare sull’omicidio di Kennedy, aveva fallito. E adesso stava succedendo la stessa cosa con l’Undici Settembre. «Dovrebbe essere uno scandalo nazionale», protestò Cleland, che nel dicembre del 2003 si dimise dalla commissione diretta da Kean e Hamilton perché non intendeva avallare quell’insabbiamento. Hamilton era già stato a capo dell’indagine sull’Irangate e a quel tempo aveva impedito che fosse fatta piena luce sul traffico di cocaina gestito dalla CIA. Insieme a Kean pubblicò un altro libretto, nel quale riconosceva che la loro indagine «era condannata a fallire», perché gli venne reso impossibile accedere a documenti e persone di rilievo. Questo vuol dire che oggi non c’è nessuna inchiesta statunitense ufficiale e degna di fede sugli attentati terroristici dell’11 settembre 2001.


Il vuoto clamoroso della difesa aerea statunitense

Come mai quel giorno la difesa aerea non ha funzionato? Sinora questa domanda non ha trovato una risposta. L’ente responsabile della difesa aerea per gli USA è appunto il North American Aerospace Defense Command (NORAD, Comando della difesa aerospaziale del Nordamerica), suddiviso in vari settori. I dirottamenti e gli attentati si verificarono in quello nord-orientale (NEADS). La FAA chiamò alle 8,37 il NEADS per chiedere aiuto: «Abbiamo un problema. Un aereo dirottato si sta dirigendo su New York. Mandate alcuni F-16 da combattimento a darci una mano». Al messaggio l’ufficiale del NEADS Jeremy Powell rispose: «È il mondo reale o un’esercitazione?». Al che la FAA confermò: «Non si tratta di un’esercitazione, non è un test». Il NORAD dispone tra l’altro di aviogetti militari del tipo F-16, che a livello del mare possono volare a 1.500 chilometri all’ora, ma nonostante ciò non è riuscito a intercettare nessuno dei quattro aerei passeggeri più lenti. Il NORAD non poté impedire al primo, il volo AA11, decollato da Boston alle 7,59, di schiantarsi alle 8,46 contro la Torre Nord del centro di Manhattan. Il rapporto di Kean sostiene che probabilmente il preavviso fu troppo breve, dato che il NORAD venne informato del dirottamento soltanto alle 8,38. Ma neanche il volo UA175, che centrò un quarto d’ora dopo la Torre Sud, fu intercettato dal NORAD. Poi trascorsero un’altra quarantina di minuti, prima che l’AA77 si piantasse contro la facciata ovest del palazzo del Pentagono, alle 9,37. Neanche in questo caso il NORAD riuscì a intercettare l’aereo. Stessa sorte anche per il volo UA93, schiantatosi su Shanksville alle 10,03. Un fallimento su tutta la linea della difesa aerea. Com’è potuto accadere? Quali piloti del NORAD partecipavano alle esercitazioni? E quali di loro dovevano difendere lo spazio aereo? Il generale Ralph Eberhart, a capo del NORAD, fu sentito al riguardo dalla commissione investigativa. «Chi era responsabile del coordinamento e della supervisione sui vari “giochi di guerra” (ossia i combattimenti simulati) in corso l’11 settembre 2001?», fu la domanda fatta il 19 giugno 2004 dal deputato Timothy Roemer, membro della commissione, al generale dell’Aviazione. Ma questi si rifiutò di chiarire tale questione fondamentale, limitandosi a un «No comment». Oltre all’esercitazione Vigilant Warrior ne erano in corso altre, con vari nomi, fra le quali Vigilant Guardian e Amalgam Virgo. Thomas Kean, capo della commissione d’inchiesta, non era soddisfatto delle risposte fornite dai militari e riteneva inattendibili anche le indicazioni ottenute da vari impiegati della FAA. Sia questa sia il NORAD cambiarono continuamente le tempistiche dei dirottamenti, creando in tal modo confusione. Secondo Kean, «i rappresentanti della FAA e del NORAD hanno fornito una versione dell’Undici Settembre che non è vera. Non sappiamo ancora perché il NORAD ci abbia detto quello che ci ha detto […]
tanto era distante dalla verità». In Germania il tenente colonnello Jochen Scholz ha notato il mancato intervento dell’Aviazione statunitense. «È assolutamente inconcepibile che, in un paese come gli USA, succeda qualcosa per quasi due ore senza che intervenga l’Aviazione di Stato», ha dichiarato Scholz, che fino al 2000 è stato ufficiale di carriera nell’Aviazione militare tedesca e per diversi anni ha fatto parte anche di stati maggiori della NATO. Il NORAD sarebbe in grado di «visualizzare sullo schermo dei suoi radar perfino un topolino». Anche mentre sono in corso esercitazioni militari, una parte dell’Aviazione militare è a disposizione per la difesa del territorio, quindi per Scholz i “giochi di guerra” non possono essere in alcun modo la causa del clamoroso fallimento dell’Aviazione statunitense. Non capita mai che tutti i piloti prendano parte contemporaneamente a un’esercitazione, almeno una parte di loro rimane sempre disponibile a difesa del paese. «È inconcepibile, assolutamente inconcepibile» che vengano dirottati quattro aerei civili nell’arco di due ore senza che intervenga l’Aviazione militare, ribadisce Scholz. Se un controllore di volo ha perso, per qualsiasi motivo, i contatti con un aereo passeggeri, viene informata immediatamente l’Aviazione militare, i cui piloti decollano subito alla ricerca del velivolo “smarrito”. Nel 2001, prima degli attentati, questa procedura ha funzionato senza intoppi in più di 60 occasioni e lo stesso è tornato a verificarsi anche dopo l’11 settembre 2001: è questa la normalità. Soltanto giovedì 11 settembre qualcosa è andato storto. «Questo può succedere solamente se qualcuno si è intrufolato nel meccanismo», è la conclusione che ne trae Scholz, aggiungendo che costui non può essere stato Osama Bin Laden.




La maggior parte delle persone, influenzate da quello che hanno visto in televisione, pensano che l’11 settembre 2001 a New York siano crollati soltanto due grattacieli. Ma non è vero, furono tre quelli distrutti: le famose Torri Gemelle, WTC1 e WTC2, ognuna alta 415 metri, e WTC7, alta 186 metri. Quest’ultima colossale struttura in acciaio, a differenza delle altre due, non venne colpita da un aereo in volo, ma crollò in appena sette secondi alle 17,20. Davvero molto strano. «Il crollo del WTC7 è un mistero tuttora irrisolto degli attentati», ha scritto «The New York Times» un anno dopo quegli avvenimenti, «perché prima di quel giorno negli USA un grattacielo di cemento e acciaio non era mai collassato per un incendio». È credibile sostenere che i tre edifici siano crollati a causa del fuoco e del calore sviluppatisi, se ciò non si era mai verificato in precedenza? Il WTC7 venne giù in modo improvviso, cioè senza alcun indizio premonitore riconoscibile, e anche in modo simmetrico, cioè in verticale sulle proprie stesse fondamenta. L’11 settembre una cronista della BBC, Jane Stanley, che fece la diretta da New York del crollo del WTC7, alimentò la confusione. Difatti la giornalista parlò del crollo del WTC7 venti minuti prima che si verificasse: l’edificio era ancora in piedi e ben visibile dietro di lei. In seguito Jane Stanley ammise: «È stato un errore». Anche il caporedattore della BBC, Richard Porter, si scusò nel 2008 per la svista. La BBC ha sostenuto di aver avuto questa notizia dall’agenzia di stampa Reuters. Ma Reuters, a sua volta, come faceva a sapere che il WTC7 sarebbe crollato prima ancora che ciò accadesse?
Il crollo del WTC7 può avere solamente due cause possibili: l’incendio sviluppatosi al suo interno, oppure una demolizione controllata (ossia, provocata intenzionalmente). Nel corso dei primi due secondi e un quarto, i 47 piani di quell’edificio sono crollati in caduta libera, vale a dire senza alcuna resistenza verso il basso, rispettando l’accelerazione di gravità. «Se un corpo cade liberamente dallo stato di quiete, dopo un secondo la sua velocità è di 35 km/h e dopo due secondi di 70 km/h. Anche dopo la fase della caduta libera, il WTC7 continuò ad aumentare la velocità di caduta fino a superare chiaramente i 100 km/h», dichiara il fisico tedesco Ansgar Schneider, e aggiunge: «È un fatto incredibile, non ci riuscirebbe nemmeno un illusionista come David Copperfield». Quel grattacielo è venuto giù alla stessa velocità di un paracadutista che si fosse gettato, tenendo chiuso il paracadute, dal tetto dell’edificio stesso. Com’è stato possibile? Il WTC7 aveva una solida struttura interna di acciaio, composta da ben 81 robusti pilastri verticali, 57 dei quali disposti lungo il perimetro dell’edificio e 24 al suo interno. Come fa una simile struttura in acciaio a precipitare improvvisamente in caduta libera, accelerando fino a superare i 100 km/h come una Porsche? Solamente diciott’anni dopo gli attentati è stata trovata una risposta a questa domanda importante. Il 3 settembre 2019 l’ingegnere edile Leroy Hulsey della University of Alaska Fairbanks (UAF) ha pubblicato un solido studio di 114 pagine sul crollo del WTC7, commissionatogli dal gruppo “Architects & Engineers for 9/11 Truth” e dal loro presidente, Richard Gage. Questo lavoro è giunto a un risultato chiaro e univoco dopo indagini durate quattro anni: «Non è stato l’incendio a causare il crollo del WTC7. Il crollo può essere spiegato solamente col cedimento praticamente contemporaneo di tutti i pilastri portanti». Anche se in quel rapporto non compare mai la parola “demolizione”, il parere di Hulsey è netto e convincente: il WTC7 è stato abbattuto da una demolizione controllata.



Dato che lo studio di Leroy Hulsey dimostra in maniera scientifica la demolizione del WTC7, ora si è tornato a discutere anche sul crollo degli edifici WTC1 e WTC2. Furono anche questi opera di demolizione controllata, oppure sono crollati a causa del fuoco e del calore sviluppatisi? Non è chiaro, ognuno deve farsi una propria opinione secondo scienza e coscienza. In Danimarca il chimico Niels Harrit, docente all’Università di Copenaghen, ha esaminato insieme al fisico statunitense Steven Jones, docente alla Brigham Young University dello Utah, la polvere che si è depositata a Manhattan dopo il crollo delle tre torri. «Nelle macerie abbiamo trovato tracce di nano-termite», ha dichiarato Niels Harrit nel 2009 alla televisione danese. La nanotermite è un esplosivo sviluppato dalle forze armate, rivenuto dai due ricercatori nella polvere sotto forma di minuscoli frammenti di colore rosso-grigio. «Ci sono voluti 18 mesi per preparare l’articolo scientifico al quale ci riferiamo», disse il chimico Harrit, che pubblicò i risultati dell’indagine nella rivista «Open Chemical Physics Journal». A che serviva quell’esplosivo?



Nella costruzione del WTC fu impiegato amianto polverizzato ignifugo come protezione antincendio. «Gli edifici del WTC contenevano centinaia di tonnellate di amianto», scoprì il giornalista statunitense Michael Bowker, autore di un libro sull’amianto e le vittime che aveva fatto in America. «L’amianto polverizzato fu adoperato nella Torre Nord in almeno 40 piani». Eppure, nelle ore e nei giorni dopo gli attentati la Environmental Protection Agency(EPA, Agenzia per la protezione dell’ambiente) avrebbe «adottato di proposito tecniche di misurazione superate», senza avvisare della presenza dell’amianto neanche i pompieri e i poliziotti che prestavano i primi soccorsi sul posto. Per Bowker ciò fu una circostanza «scioccante e inspiegabile». Il miliardario newyorchese Larry Silverstein, proprietario in passato dell’edificio WTC7, sei settimane prima dell’11 settembre 2001 sottoscrisse un contratto di locazione della durata di 99 anni per tutto il complesso del WTC. Le Torri Gemelle avrebbero dovuto essere bonificate di tutto l’amianto, ma a causa dell’attacco questi lavori di ammodernamento non vennero eseguiti. Dato che nella sua polizza erano contemplati espressamente gli attentati, Silverstein ricevette in seguito 4,5 miliardi di dollari da sette diverse compagnie assicurative, una delle quali era il gruppo svizzero Swiss Re. Così l’imprenditore poté edificare un nuovo WTC7 e, al posto delle due Torri Gemelle, la cosiddetta “Torre della Libertà”, che con i suoi 540 metri, al momento dell’inaugurazione nel 2014 era l’edificio più alto degli USA. Quando l’amianto si disperde nell’aria, a seguito di un incendio o di una esplosione, frammenti microscopici possono infilarsi nei polmoni. «Più di 5.000 newyorchesi, che inalarono la polvere, frammista all’amianto, calata su Manhattan per il crollo delle torri», avrebbero contratto un tumore per tale motivo, ha scritto Zeit Online. Molti pompieri e poliziotti sono morti per le conseguenze degli eventi di quel giorno. La sola Torre Nord conteneva 400 tonnellate di amianto cancerogeno, proseguiva l’articolo del giornale tedesco. Ma siccome gli effetti dannosi dell’amianto compaiono solamente molto dopo che è stato inalato, per parecchio tempo non se n’è parlato. «Gli effetti dell’amianto si vedono solamente dopo decenni», spiega il medico tedesco del lavoro Hans-Joachim Woitowitz.


Tratto dal libro "Breve storia dell’Impero Americano" (Titolo originale:
Imperium USA. Die skrupellose Weltmacht, ovvero "Impero USA. Una potenza senza scrupoli"), Fazi Editore, 2021. Daniele Ganser è uno storico e ricercatore svizzero specializzato in storia contemporanea e politica internazionale. Insegna all'Università di San Gallo.

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