Quando qualcuno ha grandi aspettative di successo in qualsiasi campo, ma le cose vanno in senso diametralmente opposto e a suo massimo scorno, si dice che c'è rimasto “con un palmo di naso”. L'espressione è piuttosto colorita ma descrive bene l'espressione delusa di chi ne è l'oggetto. E più ci si illude e si va dietro a narrazioni autoassolutorie e confortanti, più duro sarà il risveglio.

Mentre a sentire i nostri tiggì di regime sembrava che l'evento principale nell'universo fossero le operazioni di ripescaggio di cadaveri di migranti in mare, il consiglio dei ministri straordinario a Cutro sul tema “migranti”, le polemiche e le accuse fra maggioranza e opposizione aventi ad oggetto i migranti vivi e defunti, e le esilaranti accuse ai militari russi di essere i responsabili dell'impennata di arrivi di migranti sulle nostre coste (senza dimenticare gli accorati appelli del papa ad occuparsi un po' di più di migranti), nel mondo attorno a noi accadevano due o tre cosette che, a volerle leggere bene nelle loro implicazioni, avrebbero meritato un'attenzione ben maggiore.

È successo che la Cina ha fatto da mediatore in un accordo fra i rivali storici Iran e Arabia Saudita perché fra i due cessasse quella sorta di guerra fredda locale che per anni aveva portato persino all'interruzione di relazioni diplomatiche regolari fra i due principali Paesi dell'area. L'evento è importante innanzitutto perché rappresenta una battuta di arresto della strategia USA di fomentare divisioni e guerre in modo da rendere tutto il Medio Oriente instabile e quindi suscettibile di controllo, o, laddove un soggetto politico risulti refrattario alla servitù, come nel caso iraniano, farlo scivolare nel caos interno tramite opportune rivoluzioni colorate a gettone e opporgli avversari esterni che ne blocchino la politica estera, come è stato il caso dell'Arabia Saudita. Che in seguito alla guerra in Ucraina i sauditi abbiano respinto ogni richiesta di cooperazione sul petrolio da parte di Washington, arrivando all'inaudito di non rispondere ad una telefonata della Casa Bianca, era già un segnale forte che le cose non stavano andando secondo i piani del Dipartimento di Stato. Che ora l'ex alleato storico americano nella regione, secondo per affidabilità solo ad Israele, si faccia guidare alla riappacificazione col principale avversario regionale dalla Cina, che è anche la prima minaccia al predominio americano nel mondo, è non un campanello di allarme, ma una campana di bronzo che suona a morto. Eppure non pare aver ricevuto l'attenzione dovuta dai cosiddetti analisti, men che meno dalla grancassa della disinformazione occidentale. E allora a questo evento se n'è aggiunto un altro.

Russia, Iran e Cina hanno annunciato manovre militari congiunte nel golfo di Oman, ossia la parte di Oceano Indiano in cui sbocca il Golfo Persico. E non è neanche la prima volta: sarebbero le terze dal 2019. Per apprezzare pienamente il significato di questo evento basterebbe la loro collocazione: l'area del mondo in cui gli USA sono più attivi dalla Seconda Guerra Mondiale, che è infatti divenuta per questo anche la più instabile, martoriata e soggetta a conflitti e rivolgimenti cruenti, e questo dopo che, in seguito alla conquista ottomana nel XVI secolo, era stata per quattro secoli una delle regioni più sonnacchiose e affette da immobilismo, tanto da ispirare generazioni di artisti occidentali che se le immaginavano tramite gli stereotipi immutabili dell'orientalismo. Se due delle principali potenze nucleari del mondo si comportano con una delle principali potenze regionali come se fosse un loro alleato ufficiale, allora le dinamiche dell'area mediorientale sono destinate a prendere tutt'altra forma, sul modello di quanto accaduto in Siria, dove l'azione congiunta di Russia e Iran ha causato l'espulsione dal paese degli elementi manovrati dagli Stati Uniti (in primis ISIS ma anche altri gruppi terroristici minori, battezzato tanto magnanimamente “oppositori” dalla stampa nostrana). Roba da turbare i sonni non solo di Washington, ma anche di Gerusalemme. Che invece sembra non curarsene, anzi, con gli ultimi raid su territorio iraniano e siriano, fatti in un periodo in cui non subisce minacce dirette da questi paesi, sembra guidata da un'arroganza senza limiti e incurante del fatto che stia ponendo le basi per risposte molto più pesanti di quelle a cui sono abituati. A esempio con missili di tecnologia russa o cinese.

E siccome le cattive notizie (per alcuni) arrivano in gruppi di tre, ecco la successiva. Stranamente, è forse la più significativa, ma (proprio per questo?) non ha provocato alcun dibattito pubblico sul caso.

È successo che la Credit Suisse, principale banca svizzera, si è vista chiudere i rubinetti del credito dal proprio azionista principale, che è nientemeno che la Saudi National Bank, ed ha perso il 30% in Borsa in una sola seduta prima di venire salvata in extremis da un prestito statale e quindi venduta alla concorrente UBS. Io avrei qualche riflessione da fare sul fatto che una banca svizzera, la prima o seconda nel Paese (vale a dire fra le principali al mondo) collassi se non riceve soldi dall'Arabia Saudita. Anzi, basterebbe mettere l'accento che uno dei principali attori della finanza occidentale sia partecipato in maniera determinante dall'Arabia Saudita. Quanti altri soggetti che si atteggiano a padroni del mondo e hanno al sede nel Vecchio Continente sono poi controllati da Paesi a cui pensiamo in genere con sufficienza? Sospetto che se il fiore all'occhiello del settore in cui il forziere d'Europa storicamente eccelleva si sia ridotto così, la situazione possa essere altrettanto inquietante in parecchi altri casi. Altro che “esposizione irrisoria” delle banche italiane secondo Giorgetti. Sono abbastanza vecchio per ricordare che, all'epoca della crisi dei Subprime, le banche italiane erano piene di titoli tossici statunitensi, e l'AD di Unicredit, Alessandro Profumo, poco prima di essere silurato si giustificò con un incredibile “Chi avrebbe potuto immaginarlo?”, come se fosse un povero profano ignaro di tutto che nulla poteva prevedere. È la globalizzazione, bellezza: e a meno di voler credere che, nell'ultimo decennio, le banche italiane si siano convertite all'autarchia, non c'è da pensare che oggi le cose possano essere migliorate.

Mettendo insieme i pezzi, che è quello che chi vuole comprendere i tempi cerca di fare, ne viene fuori un quadro piuttosto preoccupante. Non so quali siano i piani dei burocrati che apparentemente decidono le politiche europee, ma sembra che ci abbiano messo in rotta di collisione con la Russia, che è il nostro fornitore naturale di materie prime, la Cina, in cui abbiamo trasferito in decenni di forsennata delocalizzazione tutte le nostre attività produttive, e quindi anche tutte le nostre conoscenze e tecnologie per produrre i beni di cui abbiamo bisogno, e seguiamo gli USA nel fomentare disordini in Iran, che, insieme all'Arabia Saudita e alla Russia, è un altro a rifornirci giorno dopo giorno del carburante senza il quale non ci potremmo muovere e moriremmo anche di freddo. Questi Paesi si stanno naturalmente coalizzando, come accade a chi ha un avversario comune, e stanno attraendo nella loro orbita anche quegli altri, dal Sudamerica all'Africa (vedere la lista dei Paesi candidati al BRICS: è decisamente più impressionante di quelli candidati a entrare nell'UE) sono anche quelli che ci riforniscono di derrate alimentari. Le stesse la cui produzione stiamo tutt'ora soffocando con decenni di politiche agricole europee improntate al suicidio. In soldoni, ci ritroviamo senza materie prime, senza industria e senza settore agricolo, con il solo settore di servizi finanziari che pare l'unico ad aver ingrassato sul cadavere europeo, e stiamo scivolando verso la guerra aperta con quelli che non solo hanno rafforzato quei settori che noi abbiamo strangolato, ma sono ben infiltrati anche nell'unico che è rimasto.

Gli USA, come scrive Kissinger dagli anni '70, sono entrati in una fase di declino. Per loro è naturale spargere guerre e caos nel mondo che li circonda per rendere questo declino più lungo e meno catastrofico possibile. Il risultato sarà comunque il loro ridimensionamento, e si capisce benissimo chi li sostituirà nelle aree e nei settori che lasceranno sguarniti. La Cina è già il principale partner commerciale di tutti o quasi i paesi africani e sudamericani, mentre la cooperazione militare russa con Venezuela (altro bersaglio della destabilizzazione made in USA) e Sudafrica si è aggiunto a quella storica con Cuba. Gli equilibri stanno cambiando velocemente, mentre i fallimenti della politica americana si accavallano, dall'Afghanistan alla Libia, a Washington si accontentano di aver venduta cara la pelle, guadagnando qualche decennio di presenza militare in paesi che, fra dopoguerra e ricostruzione, non saranno normalizzati per altri decenni. Sorprende invece che si prestino a questa politica i paesi europei. In un'epoca in cui gli attori principali fanno attenzione a non bruciarsi direttamente le dita, pare che le classi dirigenti europee siano impegnate in una gara a chi arriva prima a prendere gli schiaffi. Non solo il caos nei Paesi nordafricani e mediorientali ci riempie da ormai dodici anni di profughi economicamente inutili (lo ammette persino Confindustria, e ho detto tutto) che poi si convertono in problemi di ordine pubblico. Non solo le tensioni e i conflitti con Russia e Cina sono una sciagura per l'economia europea, e non credo che esista ancora un malato di mente convinto di aver già sostituito con profitto gas e petrolio russi con quelli americani (pagati sempre quattro volte tanto) e dell'Angola o Algeria (come se gli idrocarburi si possano inventare e chi già li estraeva e vendeva se li fosse tenuti in cantina in attesa di darli a noi in saldi). Ora stiamo anche mettendo le basi per una guerra aperta con quella che è anche una potenza nucleare, e tutto questo per ragioni che restano oscure. Scriveva Clausewitz, oltre due secoli fa: non si entra in guerra se non si hanno ben chiari gli obbiettivi da raggiungere e i mezzi per perseguirli. Messa da parte la ridicola retorica sui “valori” di libertà e democrazia in cui non crede neppure quel lucertolone di Borrell quando parla credendosi Roosevelt, l'Unione Europea sta svuotando i propri arsenali nel buco nero ucraino mentre sembra cercare di provocare un allargamento del conflitto. Praticamente si dice di sostenere l'Ucraina nella difesa dei nostri confini, cosa che questa sta facendo molto male, e quando sarà venuto il nostro turno di combattere avremo già perso la maggior parte dei nostri armamenti prima di aver sparato un solo colpo. I Paesi da cui riceviamo lo stesso carburante per far andare carri e treni ci saranno ostili o indifferenti. Avremo perso il primato tecnologico. Non avremo neppure di che mettere insieme il pranzo con la cena (naturalmente nessuno ricorda cosa accaduto l'anno scorso ai prezzi dei cereali prima che la Russia accettasse il piano per l'esportazione del grano ucraino). Cosa ci salverebbe? Si sente tanto parlare di “ombrello NATO”, sotto a cui si affrettano a mettersi anche gli utlimi arrivati, Svezia e Finlandia.

Ebbene, qualcuno spieghi (ma è ormai tardi) che non c'è nessun ombrello NATO a proteggere le nostre teste. L'ombrello NATO siamo noi. Siamo noi i destinatari naturali, per ragioni geografiche, delle atomiche russe in caso di guerra. A Mosca non saranno mai così idioti da bombardare direttamente il territorio americano: sarebbe come attirarsi una risposta sul cuore della Russia europea. Le primissime fasi del conflitto vedrebbero le bombe cadere sulla periferia. È naturale che i russi colpiscano l'Europa Occidentale, ed è naturale che gli americani colpiscano le forze russe in Ucraina o in Estremo oriente. Dopodiché, si siederebbero attorno ad un tavolo per evitare danni maggiori. E se nel frattempo la Polonia, i Baltici e l'Italia si sono presi qualche missile a testata nucleare, sono i “danni collaterali” che per i nostri padroni sono accettabili. Mica li subirebbero loro.

Qualcuno dovrebbe davvero sgomberare la nebbia dalle teste degli europei, il tanto per distinguere ciò che ci protegge da ciò che ci danneggia. Altrimenti bisognerebbe pensare sia in esecuzione un elaborato, e perfetto, piano di suicidio continentale.

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Ho letto con molta attenzione quello che hai scritto e sono d'accordo con te, meno che su un punto: il fatto che si rischi il nucleare in Europa. Da questo punto di vista - poi non vorrei portare sfiga - sono più ottimista. Che l'Europa sia condannata, salvo colpi di coda, ad un dissanguamento economico, è cosa su cui sia io che te abbiamo scritto tanto. Ma a maggior ragione, secondo me, a nessuna delle due potenze interessa denuclearizzare l'Europa, anche perché poi in che modo questo potrebbe consentire una ricostruzione in un terreno radioattivizzato? Gli interessi degli Stati Uniti e della Cina in Europa sono noti e a nessuna delle due conviene inquinare il terreno su cui dovranno ricostruire. Semmai il rischio è un altro e cioè che si mandino milioni di europei a morire per scongiurare l'ipotesi che si lanci la bomba atomica.
E' a rischio l'Europa come identità, non come continente.
 
La Russia non ha bisogno di bombardare i paesi europei perché sa e aspetta la crisi dell'Unione. Lo aveva già previsto Vladimir Zhirinkvski nel 2018 in un articolo che mi ha messo i brividi essendo terribilmente lungimirante anche per i fatti recenti. Non devono aspettare molto. L'articolo di Politico.eu di ieri già annuncia che la crisi tedesca e francese saranno un problema per la prossima riunione a Bruxelles. Cito -
""":"I leader dell'UE speravano di concentrarsi sull'economia e sugli affari esteri quando si riuniranno giovedì a Bruxelles per un vertice di due giorni. Ma Germania e Francia hanno già dirottato l'occasione (traduco letteralmente 'hijack'). Il governo di coalizione tedesco non riesce a smettere di litigare, la Francia è un paese in rivolta e i due paesi più grandi dell'UE stanno portando il loro bagaglio a Bruxelles. """"
 

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