Quando mi trovo a parlare della (prevedibilissima) "crisi del dissenso", non posso fare a meno di provare un certo imbarazzo. Mi sento come se mi chiedessero di commentare le sorti della squadra di calcio del paesello dove ho vissuto da ragazzino e al quale sono rimasto affezionato. Questa squadretta gioca in serie D e ha iniziato male il campionato. Anche ammesso che avessi visto le partite - mi limito a seguire solo i risultati, sul televideo - il punto è che se ci scrivessi un articolo, la gente giustamente si chiederebbe "Ma perché io che non sono di quel paese, devo ascoltare cose che non mi interessano?".
Certo, il tema del dissenso, dell'opposizione al sistema che ci sta schiacciando, è un po' più interessante. Ma la sensazione che mi sembra di cogliere, anche osservando le reazioni dei vari miei contatti, è che il dissenso abbia inaugurato, il 25 Settembre del 2022, una tale fase di verticale declino, che sembra distante, e di ere geologiche, il tempo in cui tutti pendevano dalle labbra degli animatori digitali. Come se si avesse la certezza che tutto ormai fosse inutile e che ci tocchi, da una parte, rassegnarsi all'ineluttabilità del declino e dall'altra affidarsi alla labile speranza che, in qualche modo, la Meloni possa cavare qualche ragno dal buco. Anche perché, con tutto il rispetto che si può avere per chi almeno ci mette la faccia, ormai i più li leggono e non è che dicano "Bravi, vi seguirò fino all'inferno" ma "Sì, è così. E quindi cosa si fa?". Per poi scoprire che nessuno di questi capipopolo può fare assolutamente nulla. Possono denunciare, denunciare e ancora denunciare. Ma non possono certo cambiare - e probabilmente manco si sentono all'altezza di farlo - la situazione.
Quindi, cosa dobbiamo pensare? Ci dobbiamo rassegnare? Possiamo cavarcela? Possiamo ribellarci?

Al riguardo, la prima cosa da dire è che ogni progetto di successo parte da una profonda conoscenza delle persone che decideranno, dando il proprio consenso, di seguirci. E, salvo pochissimi, le persone non hanno idee ma interessi. Chi decide di abbracciare un leader non lo fa certo per ideali, ma perché pensa, seguendolo, di difendere un proprio interesse. Per poter garantire gli interessi dei proprio seguaci, occorre una struttura di potere che si fondi su un ordine. E la struttura dello Stato si basa indubbiamente su un ordine che assicura protezione sociale, sempre minore e di minore qualità, ma che c'è. Questo certamente non significa che non sia rovesciabile (altrimenti perché esisterebbero le rivoluzioni?) ma altrettanto certamente significa che per poterlo abbattere, bisogna costruire un'alternativa credibile, con un'ideologia sostenibile. Ed è esattamente qui il punto: al dissenso va accompagnato un consenso. Che si ottiene soltanto costruendo un nuovo ordine basato su un'idea comune dei destini di una società. Niente che avvenga col sorriso sulle labbra, sulla punta delle baionette digitali, seguendo percorsi istituzionali. Ogni rivoluzione fa morti e feriti, vede i protagonisti rischiare la vita, farsi anni di galera e di torture, nel corso dei quali viene loro tolto tutto, spesso addirittura la vita. Ogni rivoluzione è accompagnata da un gruppo di solidissimi intellettuali che sanno i pro e i contro di un'idea. Qualcosa che si fa fatica a scorgere nei tanti masanielli digitali che da anni animano il dibattito, per giunta, mostrando, non di rado, di essere molto a proprio agio in quelle giunture mediatiche e politiche che a parole vorrebbero abbattere.

Una volta che si prende coscienza della cosa, si capisce che la salvezza non arriverà certo dai capipopolo dei social. Che, certamente, non sono gatekeeper - come si dice con una terminologia ormai abusata - ma molto più probabilmente narcisisti che hanno visto nel malcontento della gente una facile strada per arrivare ad una notorietà che non avrebbero mai avuto, ottenuta dicendo cose incendiarie che procurano consensi per poi sfarinarsi puntualmente quando la notorietà e la prospettiva di future responsabilità li obbligano a moderarsi, fino ad arrivare ad un cortocircuito spesso sfociato o in libri venduti o in ospitate televisive e, per i più ambiziosi, in un ingresso in politica che poi naturalmente seguirà lo stesso percorso inaugurato dai grillini: incendiamento, insediamento, imborghesimento e tradimento. E non potrebbe andare diversamente. Il sistema è stato costruito proprio su misura di questi percorsi. Quando i parlamentari vengono nominati, quando dopo quattro anni e mezzo gli si fa annusare l'ebbrezza di un accredito pensionistico a vita, anche i più barricaderi (anzi, soprattutto i più barricaderi) tendono spontaneamente alla moderazione.
Cosa si vuol dire, in sintesi, con questo? Che non è vero, come dicono i disfattisti, che il sistema non possa essere rovesciato. Soltanto, è ridicolo che ci si aspetti che il procedimento sia indolore e, soprattutto, che possa seguire vie istituzionali. Il sistema ormai si è incancrenito e non è bonificabile se non attraverso l'uso di una forza ragionata che, sostanzialmente, preveda la creazione di una sorta di sistema di contropotere che agisca con la consapevolezza di dover poi diventare sistema di potere e che si strutturi come un clan mafioso, con annesse azioni di forza ma anche con la capacità di provvedere ai bisogni di chi fa parte del clan.
E' esattamente questo che è mancato durante la pandemia, che pure era stata un'occasione d'oro per una resa dei conti.

Se la convinzione che, per uscire dai propri guai, occorra la forza, scandalizza qualcuno, è bene che si sappia che una rivoluzione non è MAI una cena di gala. Non è una rivolta popolare - anche se molti fanno confusione - né tantomeno una marcia su una determinata città. Nell'era del grande rumore, la rivoluzione che ci salverà avverrà nel silenzio, mentre tutti sono impegnati a cicalare, parlando di niente. E, quando avverrà, state certi che i primi a cercare di ostacolarla saranno proprio quei capipopolo che, vedendosi scavalcati da qualcuno più capace di loro, invece di dire "Beh finalmente abbiamo trovato il nostro salvatore", cercheranno di mettergli le bastoni tra le ruote, finanche arrivando a rinnegare ciò in cui credevano e schierandosi col nemico.
E non bisogna fare drammi su questo, perché l'umanità è questa roba qui. Fare una rivoluzione di successo significa non aspettarsi una nobiltà d'animo che non appartiene certo alle masse ma soltanto a chi, non accontentandosi della propria quotidianità, spinto dalla propria ambizione e dal proprio onore, cambierà il mondo.

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Il dissenso si deve fondare anche su "interesse economico". Non a caso il PCI, ora PD, ha fondato tutto sulle cooperative rosse. La gente che ha problemi economici, che deve mettere un piatto in tavola, pagare l'affitto, non ha tempo per la politica, ma ti vota volentieri se tu fornisci loro una paga.
 
Purtroppo la destra antisistema si fonda sul grosso imprenditore linguacciuto, sulla pasionaria urlatrice e sul rentier tronista (come il babaecălus petroniano Gianluca Vacchi), i quali non muovono un dito perché vogliono evitare grane.
 

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Franco Marino
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