Di tanto in tanto leggiamo di studenti che si suicidano perché hanno fatto credere di essersi laureati e poi invece si scopre che non è vero e che in realtà o sono ancora indietro o non hanno fatto alcun esame. Questa è una ormai nota minestra, tipicamente italiana: uno studente che si iscrive all'Università per fare contenti mammà e papà, i quali sicuramente gli avranno rotto le palle sull'importanza della laurea per emergere, sui "sacrifici che abbiamo fatto per darti un avvenire" e che provato dalla pressione di dover reggere una pantomima che non appartiene alla sua natura, ad un certo punto gli crollano i nervi e fa una sciocchezza. C'è da dire che l'ultimo di questi episodi, avvenuto a Somma Vesuviana - dalle mie parti - ha una peculiarità abbastanza tipica: in realtà la studentessa aveva fatto credere di essere prossima alla tesi ma non è che non avesse fatto alcun esame, gliene mancava soltanto uno. Ma uno o dieci che fossero, fosse anche stato nessun esame sostenuto, quando in un paese è un mancato corso di laurea a portare al suicidio uno studente, quando questi sente di dover mentire per fingere di aver compiuto un percorso, significa che siamo di fronte ad un problema. Che è, dicevamo, tipicamente nostrano: il rapporto patologico degli italiani con la laurea, sia che arrivi a queste tragedie, sia che, come altre volte, si fermi a episodi tragicomici come quello, per esempio, di Oscar Giannino - di cui peraltro compresi perfettamente l'entità del dramma umano che si trovò a vivere - che di fatto rovinò la sua carriera inventandosi di averne due. Qual è il problema di fondo?

Partiamo da un punto: la nostra è una società fortemente statalistica per la quale un individuo si identifica con la professione che svolge. Un italiano prima di essere una persona con la sua personalità e la sua particolarità, è anzitutto la professione che svolge. Questo aspetto - alquanto irritante, anche quando apparentemente dovrebbe lusingarmi - si verifica tutte le volte (e siamo più o meno nel centinaio in vent'anni di conversazioni giornaliere con i miei lettori, non scherzo) che mi chiedono "Ma tu sei un giornalista in incognito?". Non immaginano minimamente che io possa essere semplicemente una persona che ha la spinta di esercitare in fondo un diritto riconosciuto dalla Costituzione, quello di divulgare il mio pensiero e che in privato io possa essere una persona migliore o peggiore di quello che emerge dai miei scritti. Il tentativo di incasellare l'attività di una persona in una modalità professionistica - alla quale magari dovrebbe corrispondere un ordine professionale - è la costante di qualsiasi attività italiana. Di conseguenza, la laurea non ha il valore meramente fisico di certificare una competenza, ma ne assume uno metafisico, ossia la chiave d'accesso all'Olimpo dei saggi e della borghesia. In un paese normale, chiunque volesse fare il medico dovrebbe giustamente misurarsi con ospedali e pazienti che prima di affidarsi ai suoi servigi, vogliono sincerarsi che abbia frequentato un regolare corso di studi. E fin qui è tutto normale. Viceversa, in Italia la laurea è molto di più: è la certificazione della dignità umana e intellettuale di una persona e chi non ne è provvisto viene automaticamente considerato come un essere inferiore col risultato di divenire, di fatto, non un'attestazione di competenze ma un ascensore sociale, uno status symbol, che regola anche i rapporti di amicizia e sentimentali.

Di questo me ne resi conto quando, non appena mi iscrissi al liceo, vidi mio padre spulciare tutti i numeri di telefono dei miei compagni di classe con accanto il cognome, per poi andare sull'elenco di Napoli e vedere se accanto al nome del padre di costoro corrispondesse il prefisso dott., dr., ing., arch., prof. e quant'altro. Inutile dire come si fece afferrare per pazzo un anno che gli elenchi mostrarono il suo nome e cognome senza il dr. vicino. Mio padre, non fraintendetemi, era una bravissima persona, ma purtroppo quella era la mentalità del tempo del Sud: i non laureati erano sempre visti come delle persone di cui diffidare, degli asini, delle persone che per un motivo o per l'altro non si erano e non si sarebbero mai realizzati. E mio padre non era certo il peggiore. Perché in alcune famiglie lo stigma a volte riguardava persino la famiglia di provenienza degli studenti universitari che potevano pure avere trenta e lode a tutti gli esami: se venivano da famiglie di non laureati, non avevano scampo. Persino quando ad essere rifiutato come marito per la figlia da uno zio di mio padre, fu un certo Tonino Tizzano, poi diventato uno dei più importanti costituzionalisti *del mondo*, colpevole, nonostante si fosse laureato col massimo dei voti, di essere figlio di portieri. E tenete conto che parliamo di una metropoli come Napoli. In provincia è anche peggio, come purtroppo abbiamo visto. Questo triste fenomeno sta conoscendo una recrudescenza soprattutto oggi che, in piena aggressione contro ogni forma di distacco dalle narrazioni ufficiali, i dissidenti si vedono abbaiare addosso la spocchia di gente convinta che la laurea significhi essere depositari della verità e che non averla significhi essere asini. Con questo retroterra, fenomeni come quello degli studenti che si suicidano perché mentono sul proprio percorso di studi non sono infrequenti, perché hanno a che fare con la struttura castale della società italiana, dove non contano le competenze ma il valore morale sotteso ad un corso di studi. Specialmente ci sono casi come la facoltà in cui mi sono laureato - in netto ritardo e con voti certo non trascendentali per poi fare un lavoro che non c'entra nulla per il corso di studi e per il quale non ho alcun titolo - in cui l'idea che a quel corso di studi corrisponda un ventaglio molto ampio di soluzioni per accedere al posto statale, lo abbia trasformato in un parcheggio di aspiranti "posti fissi" (per citare Checco Zalone) il cui unico scopo è quello di piazzarsi a vita in qualche ufficio dal quale prendere uno stipendio fisso più la tredicesima.

Questo è il meccanismo in cui questa povera ragazza si è trovata. A naso, senza aver intervistato la famiglia, alla quale beninteso vanno le mie condoglianze, dal momento che si è trattato di mentire su un solo esame, sono convinto che questi le avranno fatto il solito ricatto morale dei "sacrifici per farti studiare" e che andata fuori corso di un anno, magari aveva paura di qualche ronzone da parte del padre. E, forse provata da questa e da altre cose, non ha retto alla pressione: "la cerevella è una sfoglia di cipolle", diciamo da noi. Ma per cambiare la mentalità, non basta - come pateticamente dice il rettore di Napoli - che gli studenti in difficoltà chiedano aiuto ai professori. Perché non basta cambiare l'Università. Bisognerebbe riformare l'intera società italiana. Bisognerebbe fare in modo che il lavoro non sia un punto di arrivo nel quale piazzarsi a vita, ma un qualcosa da dover ogni giorno conquistarsi. Ma è tempo sprecato. Gli italiani, che recentemente hanno scoperto l'ecologia, in realtà sono interessati ad un'unica tipologia di pianta: la pianta stabile.
Montanelli aveva ragione.

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Franco Marino
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