Mentre le truppe israeliane fanno piazza pulita dei cronisti e dei funzionari ONU e nelle prigioni di Kiev muore in circostanze poco chiare il reporter americano Gonzalo Lira, continuo a sentirmi rivolgere l'invito a leggere Anna Politkovskaja, la giornalista dissidente assassinata nel 2006. È un invito che i presunti campioni della democrazia e della trasparenza ripetono a pappagallo, con l’aria di chi non ti dà un consiglio bensì una scudisciata. Ebbene, l’ho letta e mi sono fatto un’opinione tutt'altro che negativa di questo personaggio, anche se non posso dire altrettanto dei suoi acritici apologeti, che sono tanti e abbracciano l’intero Arco Costituzionale (ecco il miracolo di Sant’Anna). La Politkovskaja, nata Mazepa, era pervasa dal furore missionario nelle anime insoddisfatte (tara – o pregio? – riconducibile al Dostoevskij inquieto osservatore della realtà russa in Diario di uno scrittore) del proprio paese, e che nasce da un’umana e comprensibilissima frustrazione che sovente sfocia nella voglia di idealizzare lo straniero. Esterofila persa, Anna speculava sui disagi vissuti dai reduci dei conflitti ceceni, lasciati in balia della vodka e delle droghe; come accade talvolta in Occidente, dove spesso e volentieri le patrie ingrate masticano e sputano esseri umani segnati dal marchio terribile dell’uranio impoverito, veterani e reduci finiti nei ranghi dei senzatetto, in coda nelle mense per poveri o a razzolare nella spazzatura. La Politkovskaja sperava ingenuamente nell'intervento dei demagoghi di Strasburgo e di ONG dagli ambigui stipendiatori; confidava nell'eco della prima (2004) “rivoluzione” di Maidan. Insieme a lei, e alle sue tante illusioni, spirava un’arietta mefitica all’insegna del tanto peggio tanto meglio che non può non riportare alla mente il primo Travaglio e l’eterno muckraker Santoro, o il loro lettore-spettatore medio che insegue la chimera del “paese normale”. La strage di Beslan? Colpa degli alti papaveri arraffoni. Secondo lei la repressione, i danni collaterali e le ambizioni spropositate dell'imperialismo russo partoriscono bombaroli transcaucasici. La violenza si ferma con la non violenza, porgendo l'altra guancia e mettendo fiori nei cannoni, trattando con sceicchi e atamani del Terrore, demilitarizzando il territorio e tirando in mezzo la splendida compagnia formata da osservatori internazionali di cui la popolazione si fida: ONU, OSCE, Parlamento europeo. Cosa manca? Ah sì, la sempiterna rivoluzione dal basso che restituisca la parola alla società civile. Insomma, una secessione morbida. La Politkovskaja giustificava contestualizzava lo jihadismo musulmano imperversante nelle zone di frontiera: «Dietro Basaev c’è la resistenza più estremista. Alimentata in primo luogo dalla gioventù cecena che non conosce altro modo per scampare alle umiliazioni di cui è vittima, e che è stata a troppi funerali di innocenti.» Non vi ricorda il Paolo Barnard ermeneuta del conflitto israelo-palestinese? O lo sparare a zero monotematico disfattistico (i giornaloni lo inquadravano in tal guisa) di Giulietto Chiesa? La Politkovskaja biasimava i metodi spicci con cui il Cremlino sradicava i tagliagole e faceva leva sul complesso di colpa che attanaglia ogni Grande Potenza. Ciononostante viene venerata da molti estimatori di un’altra zarina del mestieraccio, Oriana Fallaci, colei che voleva spianare l’ummah (non il terrorismo, l’ummah in quanto tale) a suon di tritolo. E’ vero, la presenza russa nel Caucaso e nell’Asia centrale si è macchiata di diverse nefandezze, al pari di qualsiasi Impero che si rispetti. Eppure, guai a dire che il Cremlino badava e bada principalmente a puntellare i propri confini, a curare il giardino di casa per assicurarsi il diritto di esistere: se questo è “imperialismo”, come classifichereste gli interventi occidentali volti a scompaginare Afghanistan, Iraq, Siria e Ucraina? Oltre a denunciare meritoriamente le malversazioni e i soprusi dei siloviki, l’impavida scrittrice cantava più di un peana alla Georgia sorosiana: «Saakašvili è un bravo ragazzo. Per di più è anche bello ed è il pupillo dei giornalisti di mezzo mondo [son soddisfazioni]. E Putin ha fatto sparire da un pezzo tutti i belli, bravi e simpatici ai giornalisti. [sic!] Il suo primo consigliere, Daniel Kunin, si presenta pronunciando il nome all’inglese, e anche il sorriso è americano: [Anna aveva la cittadinanza statunitense: si nota?] ciao – sembra dire – sono il miglior amico di quest’uomo... È molto simpatico e molto giovane. Per quanto discenda da Bakunin, l’anarchico, Daniel non parla russo. Uno scherzo del destino: la famiglia emigra e decide di rinunciare al «Ba» iniziale per non sprizzare scintille rivoluzionarie a ogni passo, e dopo un po’ il signor Kunin si ritrova consigliere del presidente georgiano, ma con cittadinanza e stipendio americani» [ma tu guarda]. E poi prosegue: «Un management dedito al lavoro, all’americana [aridagli], come si vede nei film d’oltreoceano: mangiano hamburger, non hanno alcun senso della gerarchia, sono tutti allegri, ottimisti e felici. Manager che guardano esclusivamente all’Occidente. Senza sfumature possibili. Tbilisi è l’anti-Bisanzio. L’anti-burocrazia. L’anti-gerarchia. L’anti-colonia che nega l’esistenza della metropoli. Mentre il Cremlino è l’esatto contrario. Una Bisanzio neosovietica. Ultragerarchizzata. Con nostalgie imperialiste che veleggiano molto concretamente verso la sottomissione e l’annessione delle colonie. L’ultimo esempio: un regalo da ottocento milioni di dollari in tasse a Ucraina e Bielorussia per ringraziarle della «collaborazione». Una politica fatta di provocazioni.» Un soffiettone imbarazzante da scuola Repubblica, roba da Concita De Gregorio. La nostra, evidentemente, riteneva che il privilegio di corrompere oliare e annettere alleati e (neo)colonie spettasse unicamente – è la morale del marchese del Grillo – ai pittoreschi allegroni del Pentagono e di Langley, e dei loro zerbini nei massmedia, ovvero i teorici e gli amplificatori del Russiagate. E poi, seguendo i dettami della neolingua, quando di mezzo c’è Washington le tangenti diventano donazioni, gli agenti stranieri filantropi e la pratica di tirare acqua al proprio mulino “stampa indipendente”. Quando di mezzo c'è il Cremlino si parla di ingerenze indebite. Come abbiamo visto, la migliore Anna Politkovskaja era il duplicato slavo di quelle voci occidentali che, abitualmente, nutrono scarsa fiducia nella versione ufficiale dei fatti e che misero in dubbio la fondatezza della “guerra al terrore” lanciata da George Bush junior (…i signori Putin e Ivanov hanno avuto la brillante idea di imitare Bush e i suoi collaboratori più prossimi: colpiranno le basi dei terroristi e i terroristi stessi ovunque si trovino. Tutti hanno capito che il bersaglio era la Georgia, la quale senza Ševarnadze sta sfuggendo al controllo del Cremlino.) dopo l’11 settembre 2001; delle gole profonde che hanno portato alla luce le gravi violazioni dei diritti umani commesse a migliaia di chilometri di distanza dai confini statunitensi. Edward Snowden e soprattutto Julian Assange, per esempio, stanno pagando a caro prezzo i loro eccessi di scrupoli. I neocon all’amatriciana e la tribù dei malpensanti a senso unico dovrebbero spiegarmi per quale ragione incensano la Politkovskaja mentre denigrano sistematicamente i suoi omologhi dell’Ovest. «A Beslan da chi si aspettano di sapere la verità? Dai giornalisti o dallo Stato? Di chi si fidano?» tuonava Anna dei miracoli. Una domanda del genere in Russia è giornalismo da premio Pulitzer che commuove i ripetitori di Radio Radicale; in Italia è complottismo da quattro soldi, perché lo Stato e il governo hanno ragione a prescindere. Anna è una eroina senza macchia, una martire, laddove gli altri erano e rimangono dei miseri svalvolati da imbavagliare o dei venduti percettori di rubli da perseguitare. Per me Andrea Rocchelli e Antonio Russo pari sono, per lorsignori il primo è un mascalzone e il secondo un martire dell'antiputinismo. Nella favolosa Repubblica Antifascista nata dalla Resistenza la lista dei delitti eccellenti e delle stragi impunite è lunghissima. Sono stati sequestrati e/o tolti di mezzo magistrati, politici di alto rango e parecchi cronisti: Giuseppe Fava fu freddato per aver messo in evidenza le connessioni tra mafia, massoneria, politica e oligarchi (vi piace questo termine, no?) locali. E così Mauro de Mauro, Mario Francese, Giancarlo Siani, Peppino Impastato, Mino Pecorelli, Graziella De Palo, Mauro Rostagno e Ilaria Alpi. Una nutrita Spoon River. In fatto di giornalisti soppressi noi italiani siamo un'autorità. Non mi risulta che la Comunità Internazionale si sia mossa contro l’Italia per quei delitti. Nessuno si è mai sognato di comminare sanzioni o di approntare strombazzature. Siamo sicuri di poter impartire lezioni di trasparenza e dialettica politica a chicchessia?



Le citazioni in corsivo sono estrapolate dai libri:

Per questo. Alle radici di una morte annunciata. Articoli 1999-2006, Adelphi, 2009.

Diario russo 2003-2005, Adelphi, 2007.

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