Ricordo che da piccolo, scartabellando i tomi di educazione civica di mio fratello, rimiravo incantato il simbolo del Partito Liberale Italiano: il tricolore con incastonate le tre lettere di colore nero. Mi affascinava soprattutto l’edera in campo bianco, emblema dei repubblicani italiani. Crescendo, ho imparato a detestarli cordialmente, in quanto fazioni profondamente imbevute di credenze filoamericane e ammanigliate al “Sistema”. Pur non essendo un liberale, accetto di buon grado taluni cardini di tale corrente di pensiero: la facoltà di esprimere le proprie idee e di mettere in discussione quelle altrui, l’intangibilità della – piccola e grande – proprietà privata (con la promessa di allargare l’area dei proprietari), la laicità delle Istituzioni pur nel rispetto dei credenti. Diversamente la glorificazione del liberalismo, la sua ipostatizzazione, figura tra le mie idiosincrasie. Se la politica è conflitto e il conflitto è vita, è anche vero che il conflitto lasciato a sé stesso alla lunga risulta letale. Ed e' qui che entra in gioco il liberalismo, il quale in origine portava con sé la visione del mondo tipica dei ceti mercantili e imprenditoriali, oltre ai loro interessi. Il mercante, di solito, è orientato al compromesso. Il compromesso deve regnare ovunque: in politica con la ripartizione dei poteri e l’adozione di forme costituzionali suscettibili di includere larghi strati della società; in materia religiosa con la tolleranza e la secolarizzazione delle istituzioni; nella società tramite il riconoscimento delle facoltà di stampa, parola, opinione ecc.; in ambito economico attraverso la composizione di un governo minimo e, almeno in teoria, neutrale rispetto agli interessi delle varie classi. Il compromesso predilige sistematicamente il male minore; e il liberalismo, sostiene Jean-Claude Michèa, si configura come l’Impero del Male Minore, una creatura esente da crucci etici. Questo è, in sostanza, lo Stato liberale. Nel XIX e in parte del XX secolo i patrioti furono essenzialmente liberali. A un certo punto, però, liberale divenne sinonimo di accanito globalista (anglofili lo erano anche prima, ma cum grano salis), e il liberalismo l’equivalente di combutta antinazionale. Il liberalismo attuale, nella sua forma astratta, è l’ultimo rifugio delle canaglie: ogni chierichetto colto con le mani nella marmellata si affretta a proclamarsi “liberale”; ogni comunistaccio rinnegato o fascistone pentito corre a iscriversi al club dei grandi estimatori di Cavour, o magari solo di Giuliano Ferrara (sic), seguendo una tempistica quantomeno dubbia e non di rado accompagnata da coming out: sono di destra e mi batto per la famiglia tradizionale, eppure riconosco di essere un sodomita passivo.
Dei gusti non si deve discutere. L’incuria in cui versa il liberalismo odierno è palmare. Le sue personalità sono semplici passacarte di organismi sopranazionali che spadroneggiano a suon di “ce lo chiede l'Europa, l'OMS, la NATO”, ammirati ed eletti da una pletora di volenterosi cretini del Wef e di Pangloss cinici e in malafede. Il “liberale” parteggia per lo stato d’eccezione, non vede l’ora di imbavagliare e defraudare l’avversario. Se si è in possesso di un minimo di senno, si deve accusare un moto di nausea di fronte alle piroette dei liberalprogressisti e dei liberalconservatori (ma si può essere al contempo liberali integrali e conservatori?). Il Partito Radicale nacque da una costola del glorioso PLI, con l’intento di farsi banditore delle pessoane
affollate solitudini cittadine, del libertinismo sottoculturato di massa e degli individui-molecola talmente affrancati dalle catene papaline e statali da ridursi a girare su sé stessi alla maniera dei dervisci rotanti. Antinazionale in politica estera e antipopolare all’interno, tifoso delle famiglie disfunzionali dei quartieri alti ove ci si sposa per allegria e si divorzia per disperazione. Tocca rivalutare i liberali di una volta. Croce, per dire, forse perché immunizzato dal vaccino marxista in gioventù, era di ben altra pasta. E poi, diciamoci la verità, nei liberali italiani l'etica del lavoro ha sempre lasciato a desiderare. Se il liberalismo poteva sedurre i piccoli e medi imprenditori lombardi e padani, gelosi della roba, delle regalie e delle comodità acquisite (se arrivano i cosacchi, mi ciulano l'amante operaia), nel mezzogiorno faceva breccia nel cuore del latifondista e dei commercianti urbani. Dal punto di vista letterario, da Piero Chiara a Vitaliano Brancati, entrambi liberali doc. Complessivamente, trascorsi gli anni ruggenti dell’epoca risorgimentale e post risorgimentale, è regredito a ninnolo fuori moda, continuando a circolare come partito di nicchia latore di una visione del mondo da sopravvissuti fin de siècle: rentier vitelloni, baroni universitari e gentucola visceralmente attaccata al portafogli. È mortificante, ma è innegabilmente così. Alcuni tra i più talentuosi capitani d’industria, pur proclamandosi liberali, guardavano altrove, alla diccì o al socialismo craxiano. La dottrina liberale è puro panglossismo. Il doux commerce, il dolce commercio a cui alludeva Montesquieu, favorisce la pace perpetua; dove transitano le merci non transitano i cannoni, asseriva Bastiat. Ma state scherzando? Spiacente, ma su questo punto le tesi di Lenin contenute nel saggio L'imperialismo, fase suprema del capitalismo, pur con i loro limiti, risultano molto più aderenti alla realtà. La competizione intercapitalistica agevola la conflittualità acuta e le guerre tra i gruppi dominanti a capo di nazioni variamente potenti. Senza una discreta iniezione di realismo leninista (integrato da List e Schmitt, Hobbes e Machiavelli) e una robusta identità nazionale, le idee liberali sono destinate a rimanere, nell’ordine, l'ideologia della borghesia compradora e l’interfaccia che annoda il centro alla periferia, in uno squallido rapporto neocoloniale. In parole povere, la via maestra che conduce all'irrilevanza geopolitica.

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