"I magistrati, in definitiva, nonostante fossero preparati in materia di diritto, non lo erano di fronte a eventi di quella portata, che per essere compresi presupponevano ben altre strutture mentali e culturali. Non avevano una cultura storica, geopolitica e anche dell’intelligence. Le stragi, infatti, non sono mai state opera di gruppi improvvisati, ma i loro autori hanno sempre avuto dietro organizzazioni e istituzioni potenti. Internazionali e interne". Rosario Priore


«Stragi di stato.» Per decenni questa espressione è stata la principale chiave interpretativa di quegli eventi, da Piazza Fontana a Brescia e all’Italicus, da Ustica a Bologna. E evidente, dall’intera sua ricostruzione, che lei non la ritiene fondata.


No, assolutamente. La ritengo una chiave interpretativa semplicistica, rozza, che è stata messa in circolazione quasi contemporaneamente a quella della «strategia della tensione». Siamo a fine 1969-primi anni Settanta e queste chiavi di lettura diventano le parole d’ordine sia degli inquirenti sia dei giornalisti, della folla dei politici che si accalca intorno alle inchieste e dei maìtres à penser, che proprio in questo periodo cominciano a pontificare. È bene ricordare ancora una volta che l’espressione «strategia della tensione» era nata in luogo e tempo sospetti: nelle redazioni di una certa stampa britannica, in fibrillazione per i successi della nostra politica estera in Nord Africa e in Medio Oriente, e probabilmente in allarme per il golpe di Gheddafi in Libia, concepito proprio in Italia nella primavera-estate del 1969. Insomma, a giudicare dalla durata dei suoi effetti, si trattò di un depistaggio tra i più riusciti della storia dell’intelligence, attuato per spostare l’attenzione esclusivamente sul contesto interno italiano, escludendo qualsiasi coinvolgimento straniero nelle nostre vicende. E invece, come abbiamo visto, le centrali straniere che soffiavano sul fuoco delle nostre tensioni interne erano numerose. Questo non vuol dire che all’interno degli apparati dello Stato non ci fossero gruppi che facevano di tutto perché noi non arrivassimo alla verità. Depistaggi, false prove, scomparsa di testimoni e di documentazione erano all’ordine del giorno in qualsiasi grande inchiesta.

«Servizi deviati.» Un’altra chiave di lettura che ha condizionato a lungo molte ricostruzioni giudiziarie e giornalistiche: con le «stragi di stato» e la «strategia della tensione», consentiva dì chiudere il cerchio, in modo che i conti tornassero perfettamente. Se lei non ha mai creduto alle prime due, ne devo dedurre che non è disposto a dare credito neppure a questa.


Occorre una volta per tutte prendere le distanze anche da questa categoria interpretativa. Un servizio totalmente deviato, come pure hanno sostenuto diverse inchieste, costituirebbe una patologia gravissima nell’organizzazione di uno stato democratico. Persino di un paese democratico «anomalo» com’era l’Italia della guerra fredda, con un sistema politico bloccato e gli apparati programmati per combattere non solo il nemico esterno, l’Urss, ma anche la sua quinta colonna interna, il Pci, il più forte partito comunista dell’Occidente. Non è credibile. Perché, se fosse stato vero, avrebbe comportato una scissione totale tra potere politico e apparati, con un servizio completamente distaccato dalla linea del governo, se non addirittura operante contro lo stesso governo. E non era così.

Infatti, l’equivalente di «servizi deviati» era proprio l’espressione «servìzi separati».


Non escludo che esistessero delle «separatezze». Anzi. Ma si trattava di fenomeni che riflettevano le divisioni esistenti all’interno dei governi e della classe politica in genere. Certo esistevano anche delle schegge impazzite, delle mele marce, come in ogni servizio segreto del mondo, è innegabile. Ma erano casi marginali, quasi sempre individuati e isolati dagli stessi servizi, dotati di buone strutture di sicurezza interna.

Lei ha detto che le stragi «silenti» in genere sono avvertimenti da governo a governo.


Da Piazza Fontana in poi nessuna delle grandi stragi compiute in Italia è mai stata rivendicata, nemmeno quelle dei primi anni Novanta attribuite alla mafia. Quindi, se c’è una nuova categoria interpretativa da introdurre è, semmai, proprio quella delle «stragi silenti». Episodi la cui comprensione sfugge a chiunque. Tranne, ovviamente, agli autori e ai destinatari del messaggio. Anche se concepite e realizzate dalla nostra criminalità o da nostre organizzazioni terroristiche, quelle stragi sono sempre messaggi per i governi.

Tornando ai depistaggi, lei dunque distingue tra la responsabilità di chi commise reati e quella di chi fece in modo che non se ne comprendesse il senso, il «messaggio»?


E ovvio. Una cosa è la finalità della strage o di un grande attentato terroristico come, per esempio, l’assassinio di Moro, su cui si sono concentrati gli interessi di tanti stati e di tanti servizi. Altra cosa è la finalità del depistaggio che mira a impedire che la verità emerga. Che si scopra, cioè, l’insieme delle complicità. Per paura delle complicazioni internazionali che ne deriverebbero, a cominciare dalle rappresaglie nei nostri confronti da parte di coloro eventualmente indicati come gli autori o i mandanti. Insomma, i servizi tendono a nascondere quasi per dovere istituzionale, con metodologie raffinate, spesso da guerra psicologica. Nebbia, nebbia. Ma non tanto fitta da rendere del tutto imperscrutabile la realtà.

Le colpe degli autori degli attentati e quelle dei depistatoti spesso si sono confuse e sovrapposte in modo sommario?


E vero. E, aggiungerei, anche con certi automatismi che spesso si sono determinati all’interno delle nostre inchieste quasi come dei riflessi condizionati. Condizionati sia da «suggestioni» di ambienti interessati a determinate soluzioni preconfezionate, sia da schemi mentali radicati in modo profondo nella cultura politica del nostro paese e dei mezzi di informazione. Abbiamo visto – e cito ancora l’esempio di Ustica – che la strage non fu certo opera di qualche terrorista «imbeccato e protetto dalla P2 e dai servizi deviati italiani», ma di potenze straniere nostre amiche e alleate. Se però fossimo riusciti a dimostrare sul piano giudiziario la colpa di quegli stati, il governo italiano non avrebbe certo potuto chiudere gli occhi: si sarebbe trovato nella non facile condizione di contestare, quantomeno sul piano politico, le responsabilità di quei paesi amici. In qualche caso anche di reagire concretamente, dando una risposta adeguata sul piano del diritto internazionale. Ma il nostro governo non ne avrebbe avuto la forza. Né la volontà. Anche perché avevamo la coda di paglia, visto che pure noi ci eravamo mossi con una certa «disinvoltura», oltre i nostri limiti e al di fuori dei nostri confini, urtando le «suscettibilità» altrui. Per questo la nostra inchiesta fu ostacolata, per impedire che si delineasse l’intero quadro della strage. E tentarono di circoscrivere l’area delle indagini alle piccole formazioni di «bombaroli d’accatto». Insomma, puntavano a una soluzione «minima» che consentisse un’uscita «onorevole» a magistrati e governanti.

Ne ha già accennato, ma vorrei che spiegasse con maggior precisione perché funzioni che negli altri paesi democratici appaiono tranquillamente conciliabili da noi invece non lo sono.


Negli altri paesi, lo Stato è uno nel senso più lato possibile, è una vera e propria entità storica e politica. Da noi, invece, è percepito esclusivamente come un’entità territoriale, senza memoria storica e senza progettualità per il futuro: insomma, parafrasando Metternich, una pura espressione geografica. Prendiamo la Francia, per esempio. Lì ci sono sicuramente più misteri e segreti che in Italia. Ma non c’è mai stato uno scontro forte, come da noi, fra i tutori del segreto e i tutori della legge. Perché lì c’è un’alta nozione dell’interesse nazionale e dello Stato, che trascende gli schieramenti politici e non è soggetta ai mutamenti delle maggioranze di governo. Pensi solo a come i francesi si comportarono di fronte alle nostre richieste di chiarimenti su Ustica: ci risposero sempre picche, sia al tempo del moderato Giscard d’Estaing sia all’epoca del socialista Mitterrand. A Parigi, la tenuta del segreto è assoluta. In Italia, invece, persistono le nebbie sull’indicibile. Ma di tanto in tanto emergono dei brandelli di verità secondo l’andamento delle vicende della politica corrente e, a volte, persino degli interessi dei singoli politici. Brandelli di segreti che vengono utilizzati come strumento di lotta e di ricatto tra le varie fazioni, senza che ci sia un disegno alto, complessivo, di disvelamento delle patologie che hanno caratterizzato i grandi eventi della nostra storia. Così, mentre da un lato molte zone d’ombra continuano a gravare sul nostro passaro, dall’altro alcuni magistrati, fortunatamente un’esigua minoranza, utilizzano quei brandelli di segreto per alimentare inchieste capaci di sollevare soltanto grandi polveroni, senza però sortire effetti di rilievo ai fini della ricostruzione della verità.

Quindi, nella guerra tra servizi e magistratura, chi alla fine ci rimette è l’opinione pubblica, che resta priva della verità.


Non c’è dubbio. Perché restano aree completamente in ombra, protette da un alone di «indicibilità». Eppure molti sanno. Ma nessuno parla. Prendiamo il caso Moro, con le sue tante anomalie. All’estero sapevano del sequestro diverse settimane prima che venisse realizzato. Persino in Italia si sapeva, tant’è che ne venne dato l’annuncio da Radio Città Futura, l’emittente romana vicina all’area di Autonomia, addirittura pochi minuti prima che scattasse l’agguato. Poi, in via Fani, sul luogo e all’ora del sequestro, c’era anche un uomo dei servizi. Non si è fatta luce neppure sui canali di andata e ritorno dei messaggi tra Moro e i suoi interlocutori esterni. Ancora, non si conosce il numero delle prigioni in cui l’ostaggio fu «detenuto». Molti indizi ci dicono che gli investigatori avessero scoperto la prima «prigione» di via Montalcini e forse anche l’ultima di via Caetani proprio durante i cinquantacinque giorni, mentre Moro era tenuto prigioniero in quei luoghi. Non sappiamo chi lo abbia interrogato, chi preparasse le domande scritte per lui, dove siano finiti i materiali del «processo» brigatista. Non si sa in quale nobile casa fiorentina si riunisse la direzione strategica delle Br. Non si sa chi avesse la responsabilità della gestione politica del sequestro, quante trattative si svolsero per ottenere la liberazione di Moro e da chi furono condotte, chi avesse in mano la «cassa» dei brigatisti che pure avevano conti nelle banche svizzere. Non sappiamo quanti e quali servizi si siano «accostati» al sequestro - prima, durante e dopo - e ne abbiano tentato l’utilizzo nell’interesse del proprio paese. Potrei continuare all’infinito con questo elenco di «indicibilità». Eppure, così come è accaduto per Ustica, una verità l’abbiamo intravista anche nella vicenda Moro, in cui le linee fondamentali della storia italiana della seconda metà del secolo scorso - guerra fredda e guerra mediterranea - si sono intrecciare, determinando degli intrichi che hanno segnato i nostri destini.

E non sappiamo ancora perché il governo italiano e gran parte delle forze politiche si opposero a ogni trattativa con le Br per salvare la vita a Moro.


Sì, so dove vuole arrivare. C’è una scuola di pensiero, a cui attingono alcuni politici allora «trattativisti», giornalisti e persino qualche magistrato, secondo la quale, dietro la «linea della fermezza» e l’apparente immobilismo del governo e della politica, si nascondeva in realtà l’input per l’assassinio di Moro. Ma francamente non credo che una tesi del genere sia sostenibile. Penso piuttosto che quell’atteggiamento avesse due spiegazioni assai più plausibili. Da una lato era necessario affermare un principio di intransigenza che era già stato deciso in sede europea un anno prima, nel 1977, e che aveva già ispirato l’atteggiamento del governo tedesco durante il sequestro Schleyer. Dall’altro, come emerge da un importante documento segreto dei servizi tedeschi, pubblicato nel 2009 proprio dal suo giornale, «Panorama», il governo italiano venne quasi subito esautorato di ogni potere nella gestione del sequestro, perché il caso era stato avocato a sé dalla rete Gladio della Nato. Rete che in quel momento era gestita da un direttorio composto da Germania Federale, Francia e Gran Bretagna. Non dimentichiamo che, proprio per le caratteristiche del personaggio Moro e per le conoscenze anche documentali di cui poteva disporre, una sua eventuale collaborazione con i carcerieri avrebbe potuto mettere a repentaglio segreti militari sensibili e lo stesso sistema difensivo atlantico.

Perché questo alone di «indicibilità» e di segretezza, che pure caratterizza molti paesi democratici – lei prima ha citato la Francia –, in Italia ha finito per assumere aspetti di vera e propria patologia?


Per una ragione, principalmente. Che è legata a un conflitto che ci trasciniamo dalla seconda metà degli anni Sessanta, dall’epoca delle rivelazioni sul «piano Solo», il presunto tentativo di golpe del generale Giovanni De Lorenzo. Una parte è convinta che la verità sia tenuta ancora sotto chiave nei cassetti dei nostri servizi per proteggere in modo omertoso complicità interne nelle trame eversive; e pensa che basterebbe aprirli per dare, come d’incanto, una spiegazione a tutti i misteri d’Italia. E c’è poi un’altra parte che, invece, ritiene che in quei cassetti ci siano dei segreti che, se rivelati, potrebbero danneggiare l’interesse del paese, complicando anche le sue relazioni internazionali.

E la sua opinione qual è?


Io non credo che nei fascicoli dei nostri servizi sui singoli episodi del grande terrorismo in Italia ci siano verità eclatanti. Quindi penso che entrambe le posizioni siano di poco conto e si ammantino di motivazioni nobili che si fermano però all’apparenza. Sono invece convinto che le chiavi per capire si trovino in altri fascicoli dei servizi e in altri archivi, a cominciare da quelli degli Esteri, della Difesa, dell’Interno, di Armi e Corpi dello stato, dei partiti, dei sindacati, delle singole personalità che hanno svolto funzioni ai vertici del paese. E naturalmente negli archivi degli altri stati, al di là del Tevere, delle Alpi e dei mari.

Ma nonostante la loro mutevolezza, «ragion dì stato» e «interesse nazionale» restano concetti metagiuridici, al di la del diritto?


Certo, sono concetti squisitamente politici e quindi metagiuridici, non deducibili dal corso di un affare giudiziario. Lei si immagina un magistrato nell’esercizio delle sue funzioni che si permettesse di valutate le linee di politica estera, finanziaria e militare del proprio paese? O addirittura di uno stato estero?

Però può farlo quando quelle linee generano reati. O no?


Per sua natura, un servizio di informazione agisce, deve agire anche in un ambito di illiceità: sottrarre un documento, falsificarne altri, violare domicili privati, sedi diplomatiche di altri stati, intercettare comunicazioni telefoniche e radio, corrompere fonti a tutti i livelli per ottenere informazioni e via elencando. Sono tutte operazioni «non bagnate», in cui non scorre il sangue, che ogni servizio segreto che si rispetti deve necessariamente eseguire. Ma non dimentichiamo che ci sono paesi occidentali di antica tradizione democratica, più antica e solida della nostra, che ammettono, tra le attività dei propri servizi, anche «operazioni bagnate», in cui è consentito mettere a rischio, in casi estremi, l’incolumità e la vita delle persone.


Tratto da libro
Intrigo Internazionale di Giovanni Fasanella

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