Quando vent'anni fa ho iniziato a scrivere, non nascondo di aver provato la cosiddetta sindrome dell'impostore. Mi sono cioè chiesto "Sono all'altezza di scrivere ciò di cui parlo?". In fondo sono pur sempre un italiano. Vivo cioè in un Paese che, sia pure formalmente democratico, in realtà si basa sul principio opposto di quelli liberali dove vige il principio che è permesso tutto ciò che non è vietato, mentre in Italia è vietato tutto ciò che non è permesso. E' quel meccanismo per cui, ad intervalli regolari, qualcuno mi chiede se io sia un giornalista, neanche immaginandosi che possa esistere un articolo 21 della Costituzione che mi permetta di tenere un blog e di dire quel che penso, anche se come titolo di studio avessi la scuola materna.
Fortunatamente, i riscontri positivi non sono tardati ad arrivare. Ma non sono mancate nemmeno le critiche di chi mi chiedeva se io fossi laureato nelle materie di cui, talvolta dibattevo. E mi è capitato soltanto in Italia. Altrove hanno altri tipi di ossessione: infatti, per esempio, un americano o un inglese, di fronte alle tue opinioni, non ti chiederebbero mai "sei laureato in scienze politiche?" ma "Hai fatto politica?". E neanche "Sei laureato in medicina?" ma "Hai guarito qualcuno?". E chiedono le referenze.
In realtà, il fatto che in questi anni mi abbiano seguito persone, in alcuni casi anche importanti, mi rassicura. E non credo che questo sarebbe accaduto se io avessi detto solo scemenze. Ma proprio per poter evitare di dire scemenze e salvaguardare la stima di queste come di tante altre persone, ho dovuto leggere tanto, studiare tantissimo. E posso dire una cosa: delle tante cose di cui ho parlato, non so se sono davvero competente e in grado di dare un valore aggiunto, ma posso dire con certezza quello che è forse il tema in cui sono meno competente, ed è proprio quello in cui mi sono, molto tardi, ma comunque laureato: Giurisprudenza. Per il semplice fatto che a me del Diritto non è mai fregato niente e che la laurea me la sono presa giusto perché in questa società si vale qualcosa soltanto se si mette il prefisso Dott. o Dr. - senza magari poi specificare dott. o dr. di che cosa - vicino al proprio nome e cognome. Mentre gli altri temi mi interessano molto di più.
In sintesi, valutare lo spessore di una persona dai suoi titoli di studio è una scemenza. Questo non significa, in generale, che la laurea non sia importante, anzi. Ma l'unica funzione di una laurea è attestare la competenza tecnica in una specifica materia e basta, non certo la capacità logica di saper distinguere un'informazione dall'altra, che invece attiene all'intelligenza, alla cultura, all'indole. Il Giulio Cesare che si gioca la vita a dadi varcando il Rubicone, non lo fa in virtù di una laurea ma del proprio coraggio, della propria visione. Tutte cose che non si acquisiscono nei banchi di scuola. Conseguita una laurea in medicina, uno può essere un eccellente medico ma rimanere un emerito cretino. E, personalmente, ne conosco tantissimi.
Ma perché questa ossessione tipicamente italiana per la laurea?

In Italia, l'impiego pubblico è nettamente maggioritario rispetto a quello privato. L'impiegato, anche di più basso livello, ha tredicesima, ferie pagate, pensione e il posto lo perde soltanto se commette cose molto pesanti. Il lavoratore autonomo, salvo che non diventi davvero ricco - ed è una minoranza - se non è un dipendente privato non ha la tredicesima, se non lavora non guadagna, avrà una pensione misera, tanto che non di rado fa dei concorsi per entrare nel pubblico, magari continuando a fare attività privata, e soprattutto può, da un momento all'altro, perdere il proprio lavoro: o perché viene licenziato o perché fallisce lui o l'azienda dove lavora. Una mia amica avvocatessa recentemente ha fatto un concorso per diventare insegnante e si è messa ad insegnare diritto in un Istituto Tecnico Commerciale. Né certamente mancano i casi di architetti che si mettono ad insegnare storia dell'arte nei licei.
Tutto questo, non è privo di conseguenze. Mentre nei paesi liberali, la laurea è semplicemente un attestato col quale ci si presenta dal cliente e gli si dice "leggi qui, io ho frequentato questo corso e dunque sono competente in questa materia", in un paese statalista come il nostro, la laurea diventa una sorta di riconoscimento onorifico nel quale il nostro laureato non è soltanto uno che ha compiuto un percorso di studi che attesta la sua competenza, ma un superuomo ad un passo dall'ascesa in Cielo alla destra del Padre. Il risultato è che chiunque consegua una laurea si convinca di essere il solo a detenere un sapere che, in realtà, spesso si può acquisire anche in altri modi.
Del resto, l'idea stessa che si possa essere competenti in qualcosa solo se laureati equivale a dire che se si dice che 2+2 fa 4, se lo dice uno che non è laureato in matematica mentre un professore di matematica dice che fa 5, allora diventa 5. Una sesquipedale scemenza.

Questo ci porta a Dario Fabbri, noto esperto di geopolitica, presenza fissa su La7 da Mentana, al quale un professore di economia, tale Ric Puglisi, ha rinfacciato di non essersi laureato. Che Puglisi formuli un'accusa così insensata non è strano, soprattutto se si considera che stiamo parlando di un accademico, per giunta noto per non essere un simpaticone - e basta vedere il suo profilo Twitter per rendersene conto.
Il punto è un altro: di Dario Fabbri non deve interessare se è laureato o no, ma cosa scrive. E, in questo senso, il tasso di sciocchezzità di questo intellettuale non è certo più alto di altri opinion leader sul tema Russia. Anzi, non di rado ho avuto la sensazione che tutto sommato Fabbri, pur nella sua faziosità, pur nella discutibilità di certe sue tesi, quantomeno sappia di cosa parla. Limes è una rivista di geopolitica chiaramente atlantista e schierata. Ma non troppo. Le argomentazioni che si possono leggere su quel sito sono certamente di parte, ma impostate in maniera tale da obbligare chi le contesta a spingere in alto l'asticella. In sostanza, mentre uno come Riotta o Severgnini o anche Sallusti o più banalmente un filoamericano all'amatriciana da social me lo mangerei a colazione perché le sue argomentazioni sono così ridicole, così pretestuose, che basterebbe pure mia figlia di otto anni per umiliarlo, con Dario Fabbri farei fatica. Perché ha sia la dialettica che gli argomenti.
Anzi, il fatto che non sia laureato, mi induce persino a credere che ne sappia di più dei laureati nelle loro materie. Intanto perché le facoltà di economia e di scienze politiche sono frequentate, spessissimo, da gente che con l'economia e la politica non ha assolutamente niente a che fare se non sul piano meramente teorico, questo perché l'economia e la politica hanno anzitutto a che fare con una dimensione pratica.
E poi perché le università italiane, degne espressioni del demenziale statalismo italiano, sono sostanzialmente organi di propaganda che riempiono di pesci i loro pescatori senza insegnare loro a pescare. L'università italiana insegna ai suoi studenti a credere in un rigido protocollo di informazioni precotte da imparare a memoria, casomai per accedere ad un concorso statale.
La laurea non è nient'altro che un percorso in cui si siede, di volta in volta, davanti ad un professore dinnanzi al quale conferire su ciò che si è studiato in quella materia. E' sicuramente un riconoscimento importante ma non garantisce nulla. Anche perché se le competenze si acquisissero soltanto attraverso un percorso di studi accademico, non esisterebbero, per esempio, le lauree honoris causa, che hanno lo stesso valore delle lauree normali (cioè se domani mi dessero la laurea in medicina honoris causa, potrei visitare pazienti etc.)
La laurea invece in Italia acquisisce un valore che va oltre l'attestazione di una competenza. E' una sorta di riconoscimento onorifico, celebrativo, una sorta di passe-partout per accedere ai salotti buoni, uno status symbol. E questo perché un paese ingessato nel suo ridicolo statalismo, non si rende conto che la competenza non si vede dagli esami sostenuti - magari condotti da professori corrotti - ma dai libri letti e dai problemi risolti.

Aver scoperto che Dario Fabbri non sia laureato mi fa pensare che non tutto sia perduto in lui. Forse si può fare ancora qualcosa per salvarlo: per esempio, non costringerlo moralmente a laurearsi. A quel punto, sarebbe irrimediabilmente perduto.
Caro Dario Fabbri, ascolta un consiglio da amico: ho letto che ti manca un anno di corso per laurearti. Non farlo. Puoi ottenere la patente di autorevolezza in modi più semplici. Per esempio, puoi metterti a piangere parlando di clima, vestirti da femmina cantando "Fuck Putin" e vincerai il Nobel e Sanremo, anche se si scoprisse che non solo non ti sei laureato, ma che addirittura non hai manco la terza media.
Il resto lo fa un buon armocromista e soprattutto mettere la testa a posto, trovando un bel marito con cui comprare dei bambini all'estero.

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Diciamo che, dal '69 in poi, i corsi di laurea sono diventati "politici" come il "18 politico" (che non so se esista ancora). E così la scuola dove, attualmente, si viene promossi per decreto del TAR. In questi ultimi anni poi, si sono aperti corsi di laurea nelle materie che una volta appartenevano a specializzazioni biennali, soprattutto post-istituti tecnici, per offrire a tutti il "dottorato". Insomma abbiamo un'offerta di certificati di laurea che, ovviamente, riducono la loro validità.
Nei paesi anglosassoni, in Francia, in Germania e in EU in genere, l'accesso alle università é reso difficile dai costi, innanzitutto, dai tempi (i giovani entrano nel mondo del lavoro molto prima degli italiani) e dalla qualità delle scuole intermedie che sono molto selettive. Tutto ciò allo scopo di dare al laureato, più opportunità anche finanziarie, a fronte però di studi impegnativi e spesso di sacrifici. Una volta era così. I corsi di laurea avevano esami che "facevano blocco" ossia se non li superavi non potevi andare avanti. Andare "fuori corso" significava pagare più tasse. Oltre a ciò le difficoltà di alloggio che costavano a chi non aveva denaro. La laurea...una conquista sudata!!!
 

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Franco Marino
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