Nessun figlio conosce i genitori che erano ragazzi, virgulti scarmigliati e felici, ruggenti leoni della loro estate. Vi è il tempo passato che esiste al pari di un sogno, sfumato e indelebile, ormai isolato in una dimensione che c'è e non c'è più. Comunica con noi attraverso l'idea, ci raggiunge nel racconto, i fili della sua trama sottile e irripetibile si allungano fino a noi e noi ne diamo nome: memoria.
Così c'erano una volta, in un campo dorato di grano maturo, di un oro diffuso fin su nel cielo, un uomo e una donna di vent'anni appena o forse qualcosa di meno. Sorrisi e capelli che volano al vento e denti che azzannano e raschiano le spighe di grano, scoperti alle grinfie del mondo, nel gioco dei nuovi padroni della savana. E gli occhi incandescenti di vivide promesse, azzurri e solari, lucenti di gioia sfrenata e totale, si guardano e si scrutano riconoscenti, increduli di fronte al miracolo della somiglianza, della reciprocità. È sempre un evento scoprire qualcuno che è te in modo naturale, senza forzare una compatibilità scritta nelle stelle. È te perché tu non puoi essere altro che te stesso e questo puoi farlo quando sei giovane e nessuno ti ha insegnato la vergogna.
In campi biondi e irti di abbondanza, lì si conobbero l'uomo e la donna della mia vita, nella certezza del loro primo amore. Ridevano, sì, di labbra di pesco e ciliegio scarlatto, mangiavano l'uno dell'altro il frutto maturo, si graffiavano di carezze spasmodiche e morbide labbra di pesco e ciliegio scarlatto muovevano, a tratti, a invocare all'unisono il nome. Il loro, il Suo, quello di Dio. Persi nel due, fusi nell'uno, inconsapevoli della consapevolezza perfetta della loro estasi.
C'era un orizzonte intorno a loro, un orizzonte circolare di immenso infinito. A loro bastava guardarsi negli occhi per osservarlo: la distesa del tutto esistente era nell'incavo tra collo e clavicola, nella manifestazione di lentiggini impossibili da contare, tra le pagliuzze paglierine dell'iride cosmica, si estendeva a dismisura nell'abbraccio amoroso del loro stare insieme. Guardarsi era guardare la beatitudine eterna, formazione continua degli universi.
Poi so che mia madre si vide riflessa nella scorza succosa e invitante di una mela rossa, una fragola liscia e penzolante dall'albero primo del loro amore, primo rifugio del loro conforto. So che le dita rosate furono orme di polpastrelli, poi impressi sognanti sullo specchio del frutto. La mela guardò lo sguardo assorto di mia madre, che non vide più l'infinito amore del proprio amore, ma eoni e secoli su cavalli infuocati che si susseguivano a capofitto nello sconfinato mare del nulla e il mare della mela non mostrava l'oceano dell'infinito amore. Vide il proprio destino e il destino del suo uomo e il destino dei loro figli, tutti segnati da una fine e un inizio, una fine e un inizio e la curiosità delle nuove fini e dei nuovi inizi la tennero fissa sulla seducente apparenza della mela rossa. Un morso e una visione, un morso e una vita, un morso e una morte, un morso e una visione. Mio padre la baciò e caddero insieme in un sonno profondo, dal cui sogno remoto io nacqui. Figlia di un morso e di una visione.
Così c'erano una volta, in un campo dorato di grano maturo, di un oro diffuso fin su nel cielo, un uomo e una donna di vent'anni appena o forse qualcosa di meno. Sorrisi e capelli che volano al vento e denti che azzannano e raschiano le spighe di grano, scoperti alle grinfie del mondo, nel gioco dei nuovi padroni della savana. E gli occhi incandescenti di vivide promesse, azzurri e solari, lucenti di gioia sfrenata e totale, si guardano e si scrutano riconoscenti, increduli di fronte al miracolo della somiglianza, della reciprocità. È sempre un evento scoprire qualcuno che è te in modo naturale, senza forzare una compatibilità scritta nelle stelle. È te perché tu non puoi essere altro che te stesso e questo puoi farlo quando sei giovane e nessuno ti ha insegnato la vergogna.
In campi biondi e irti di abbondanza, lì si conobbero l'uomo e la donna della mia vita, nella certezza del loro primo amore. Ridevano, sì, di labbra di pesco e ciliegio scarlatto, mangiavano l'uno dell'altro il frutto maturo, si graffiavano di carezze spasmodiche e morbide labbra di pesco e ciliegio scarlatto muovevano, a tratti, a invocare all'unisono il nome. Il loro, il Suo, quello di Dio. Persi nel due, fusi nell'uno, inconsapevoli della consapevolezza perfetta della loro estasi.
C'era un orizzonte intorno a loro, un orizzonte circolare di immenso infinito. A loro bastava guardarsi negli occhi per osservarlo: la distesa del tutto esistente era nell'incavo tra collo e clavicola, nella manifestazione di lentiggini impossibili da contare, tra le pagliuzze paglierine dell'iride cosmica, si estendeva a dismisura nell'abbraccio amoroso del loro stare insieme. Guardarsi era guardare la beatitudine eterna, formazione continua degli universi.
Poi so che mia madre si vide riflessa nella scorza succosa e invitante di una mela rossa, una fragola liscia e penzolante dall'albero primo del loro amore, primo rifugio del loro conforto. So che le dita rosate furono orme di polpastrelli, poi impressi sognanti sullo specchio del frutto. La mela guardò lo sguardo assorto di mia madre, che non vide più l'infinito amore del proprio amore, ma eoni e secoli su cavalli infuocati che si susseguivano a capofitto nello sconfinato mare del nulla e il mare della mela non mostrava l'oceano dell'infinito amore. Vide il proprio destino e il destino del suo uomo e il destino dei loro figli, tutti segnati da una fine e un inizio, una fine e un inizio e la curiosità delle nuove fini e dei nuovi inizi la tennero fissa sulla seducente apparenza della mela rossa. Un morso e una visione, un morso e una vita, un morso e una morte, un morso e una visione. Mio padre la baciò e caddero insieme in un sonno profondo, dal cui sogno remoto io nacqui. Figlia di un morso e di una visione.