Disse una volta l'economista britannico John Maynard Keynes: “Se devi cento sterline alla banca, è un problema tuo. Ma se gliene devi un milione, è un problema della banca”.

Avete sentito nominare il debito pubblico di recente? Perché la citazione di Keynes tornerà molto utile per smontare qualsiasi cosa ve ne abbiano detto. Personalmente, io ho sentito la Meloni giustificare la fine dello sconto sulle accise con un serafico: “Il debito sta diventando un problema”, o giù di lì. Che è poi la frase canonica con cui si è giustificato, negli ultimi trent'anni, qualsiasi taglieggiamento, svendita o soppressione di diritti e patrimonio pubblici. Magari accompagnato da roboanti slogan (qualcuno ricorda il prodiano “Dobbiamo entrare in Europa”? Meno male che ci siamo riusciti, altrimenti ci avrebbe aspettati la sorte della Svizzera), ma il messaggio centrale era quello: il Debito va ridotto. Perché i debiti, si sa, vanno pagati, prima o poi. E se uno tarda, finisce male. Come minimo gli arriva l'ufficiale giudiziario in casa, e poi la bancarotta, la vergogna, sì, insomma, il terribile default, dopo il quale non cresce più l'erba. Nell'Ottocento i buoni borghesi si sparavano per evitare la vergogna del fallimento, ma oggi sembra che i costumi si siano ingentiliti.

Ricordo il cosiddetto presidente emerito Napolitano, non so più se durante il suo primo o secondo mandato, ad un'assemblea di tromboni istituzionali, commuoversi sino alle lacrime nell'esortare chi di dovere a tutti i sacrifici necessari (da far fare agli altri) “perché non possiamo lasciare questo fardello sulle spalle delle future generazioni”.

Allora, come già dagli anni '90, vigeva la vulgata per cui il Debito Pubblico fosse una sorta di Moloch, dio a cui sacrificare idealmente, se non concretamente, anche il sangue dei primogeniti come al suo omologo fenicio, pur di placarne l'ira. Finanziarie da centomila miliardi l'anno, tagli feroci ai servizi essenziali, giri di vite omicidi sull'economia reale, tutto per ridurne l'impatto di qualche punto percentuale. Tutto inutile: una volta superato il 100%, non tornò più sotto, come se fosse inarrestabile, e oggi ce lo troviamo che viaggia verso il 150%, cosa che promette nuovi sacrifici al grido di “ce lo chiede l'Europa”.

Ma cos'è, in sostanza, il Debito Pubblico? Come dice il nome, è l'entità dei soldi che lo Stato, e quindi il Settore Pubblico, prende a prestito per finanziare le sue spese. E che deve a qualcuno. Questo qualcuno è, inizialmente, il sistema bancario e finanziario, dato che alle aste regolari per acquistarlo partecipano essenzialmente operatori finanziari professionali, che solo in un secondo momento ne rivendono parte al pubblico dei risparmiatori. In questo modo lucrandoci sulle commissioni di vendita e scaricando il rischio su questi acquirenti di seconda istanza. Il guadagno è quello di sistemare la propria liquidità in un investimento a basso rischio ricevendo un interesse superiore all'inflazione (se va bene). Il rischio, invece, è quello della bancarotta dello Stato, il tanto paventato “default”, in seguito al quale non onorerà i propri debiti e quindi non rimborserà neppure quello Pubblico. Rischio che è praticamente inesistente per economie come quella italiana, dato che una bancarotta per un'economia di quest'entità provocherebbe tali sconquassi globali che, piuttosto che affrontarla, tutte le altre economie globali, o per lo meno quelle più rilevanti, sarebbero pronte ad aprire linee di credito illimitate.

Chi, come me, ha ormai più di quarant'anni ricorderà le bancarotte russa e argentina. Oggi è di moda ridicolizzare la rilevanza dell'economia russa, che è in realtà la sesta o settima mondiale, ma negli anni '90, dopo il crollo dell'URSS, essa era davvero ridotta ai minimi termini, tanto da essere paragonabile, in termini di dollari, a quella della Danimarca, che non è proprio un colosso. Eppure era stata invasa da una massa tale di crediti di provenienza occidentale, che nel '98, al momento in cui diede forfait e cessò di pagare, polverizzò per mesi non solo i risparmi di chi ci aveva investito, ma anche il valore dei mercati finanziari ovunque, da quelli asiatici agli americani. Lo stesso accadde, tre anni dopo, all'Argentina. Un'economia afflitta da problemi cronici, con meno di trenta milioni di abitanti e legata essenzialmente all'esportazione di prodotti agricoli, fece tremare a lungo la stabilità finanziaria e mandò a picco peggio dell'11 Settembre gli indici di Borsa. Immaginatevi se, oggi, si ripresentasse la stessa prospettiva, ma con un'economia venti o trenta volte più grande, come l'italiana. La BCE stamperebbe moneta giorno e notte pur di tenerci a galla. Ma allora perché ci stiamo dissanguando per arginare la corsa del debito?

Di sicuro non per ridurlo. Faccio notare innanzitutto che, per ridurre il debito, bisogna rimborsarlo, come per qualsiasi debito. Un debito cala se se ne estingue una parte. E per farlo occorrono soldi. Ora lo Stato italiano è, tipicamente, un'entità a cui i soldi non avanzano. È vero che esiste un avanzo fra entrate e uscite, spese e incassi, ma questo viene girato regolarmente in negativo, ogni anno, proprio dalla spesa per interessi. Che è come dire che noi paghiamo per ridurre il debito ma, come primo risultato, lo aumentiamo. Ed è chiaro se si pensa che ogni disavanzo viene coperto da nuovo debito, soprattutto ora che non siamo neppure padroni di stampare la moneta che ci serve né di decidere le proprie politiche economiche (un altro dei benefici effetti dell'essere entrati nell'Euro).

Altro aspetto importante: per rimborsare il debito bisogna guadagnare più di quanto non si spenda. Ora, come sappiamo, la crescita del PIL italiano, ossia la massa di beni e servizi che l'economia italiana produce ogni anno, è, da decenni, o negativa o asfittica, da zerovirgola. Ammesso e non concesso che essa cresca dell'1% netto annuo, e che tutta questa crescita venga usata per rimborsare il debito, a questo ritmo per rimborsare un debito del 150% ci vorrebbero ben più che centocinquant'anni, anche perché, se al crescere del PIL crescerebbe anche l'entità di quell'1%, la massa del debito crescerebbe in maniera paragonabile a causa degli interessi, che superano quasi sempre l'1%. Ora, diciamocela francamente: ma chi sta davvero pensando a cosa accadrà all'Italia fra cento cinquant'anni? Siamo davvero certi che la nostra classe politica perda il sonno la notte all'idea di un'Italia che, attorno al 2170, si ritrovi ancora indebitata? A malapena perdiamo il sonno noi per quel che concerne i nostri figli adesso e nel futuro prossimo venturo, figuriamoci a chi interessi qualcosa che è materia più di fantascienza che di scienza delle finanze. Se poi pensiamo che una parte di quella crescita, anzi, la maggior parte, viene usata per finanziare la spesa corrente (pagare stipendi e pensioni, per capirci), ci si rende conto che quella crescita già irrealizzabile potrebbe andare a ridurre il debito dello zero virgola zero qualcosa all'anno, allungando i tempi del rimborso totale di molti secoli. Fantascienza, appunto.

Chiunque abbia un minimo di serietà, se non di onestà, dovrebbe ammettere questa prima, innegabile verità: quando un'economia nazionale, grande o piccola che sia, accumula un debito che va oltre un certo livello, questo debito diviene non più rimborsabile, né a breve né mai. Un debito del 180%, come quello greco, richiederebbe tassi di crescita irreali per periodi di tempo che sono fuori dal controllo e dalle previsioni di chiunque. E allora perché viviamo, giorno dopo giorno, in una bolla di disinformazione in cui si parla, agisce e progetta come se questo debito non solo lo si debba, ma lo si possa anche pagare?

Perché il debito è il fondamento su cui si regge l'intera economia occidentale. A partire dal sistema bancario, che presta al pubblico dieci volte l'entità dei propri depositi, ritrovandosi così ricco di una massa di denaro che, materialmente, neppure esiste, così succede con gli Stati. Per il sistema finanziario il debito degli Stati è una manna dal cielo. Aumenta le proprie attività in modo speculare a come lo Stato aumenta le proprie passività. Fornisce una fonte di lucro fissa e a rischio pari a zero, ossia gli interessi. E, cosa ancora più importante, permette di manovrare le politiche economiche dello stesso Stato, ossia di dirottare a proprio piacimento economie dell'entità di migliaia di miliardi di Euro o Dollari usando come mezzo di pressione il ricatto dello stesso debito: se tu non fai come ti dico io, io restringo i cordoni della borsa, compro meno del tuo debito, e tu avrai più problemi a finanziarti, dovendo sborsare fra l'altro di più in spesa per interessi. Ed essendo il sistema finanziario l'acquirente principale del debito pubblico, si capisce facilmente come sia un gioco a due giocatori, e non esista niente di simile alla concorrenza o al merito. Nel nostro caso, solo il 12% del Debito Pubblico italiano è direttamente in tasca a privati o famiglie. Il resto si divide fra BCE, banche italiane, assicurazioni e altre imprese finanziarie e speculative, e banche straniere, cioè nessuno di cui ci importi davvero se arriverà a fine mese. Si capisce anche come la questione del rimborso del debito neppure si ponga. È la classica situazione in cui il re è nudo e nessuno osi dichiararlo, ma anzi è pieno di persone che ne parlano come se fosse vestito di tutto punto e anzi disputino sulla qualità delle stoffe o del taglio dei suoi abiti. Centinaia di libroni accademici, migliaia di ore di lezione e decine di carriere impegnate a dar corpo al nulla e a mistificare delle povere menti con argomentar da ciarlatani che vendono intrugli miracolosi sulla pubblica piazza. Una potenza di fuoco concentrata con l'unico obbiettivo di non far capire come le cose funzionino, di non far pensare chi ne subisce e soffre l'azione, di non far dubitare una massa che, altrimenti, potrebbe non farsi manipolare con un racconto ben rodato ma inconsistente.

In questa situazione, semmai, è interesse di chiunque abbia parte nel sistema economico globale perseverare nel gioco, e prolungarne la durata. Il sistema stesso si regge sul debito, e ne ha bisogno disperatamente, non è il debitore che ha bisogno del sistema. E per spiegarlo facciamo una specie di gioco.

Facciamo finta che sia dichiarato, questo tanto temuto default. L'Italia dichiara di non poter più pagare i propri debiti. I mercati sprofonderebbero, i BOT diverrebbero carta straccia, l'Euro colerebbe a picco, sarebbe il caos per settimane alla BCE come a Bruxelles. Probabilmente altre economie europee verrebbero attaccate dalla cosiddetta “speculazione” (che poi sono gli stessi che ci comprano il debito, ci avete mai pensato? Ebbene sì, sono le stesse banche...). Fallimenti a catena fra le banche italiane, dato che si ritroverebbero parte delle loro riserve investite in BTP e BOT azzerate. Verremmo isolati finanziariamente, si cercherebbe di limitare il “contagio” (difficile, dato che usiamo la stessa moneta e siamo totalmente immersi nel quadro normativo e doganale UE), ma la conseguenza principale, e più immediata, sarebbe l'esclusione dal credito internazionale. Come già successo con Russia e Argentina, per qualche tempo non potremmo più rifinanziare il debito prendendo denaro a prestito fuori dai nostri confini. E neppure dentro: chi non ci avesse già rimesso i risparmi coi detti BOT e BTP, si guarderebbe comunque dal rischiare i propri dandoli a chi li ha appena fatti sparire definitivamente.

Ma questo, come detto, “per qualche tempo”. Perché anche nel caso peggiore di bancarotta, le stesse istituzioni finanziarie che avevano bollato come degli appestati Russia e Argentina, sono tornati a rifinanziarne il debito. Stupidità o pulsioni suicide? No, semplice necessità. Intanto perché economie così grosse non possono venir disconosciute indefinitamente da un sistema che è, per natura, bulimico. In secondo luogo perché, per semplice logica, una volta fatta bancarotta è improbabile che questa ricorra in tempi brevi, e nel frattempo il debito, magari sotto alla faccia pulita e “vergine” di una nuova amministrazione, sarà allettante perché concesso a tassi di interesse molto alti (il famoso “premio al rischio”, anche quando, in casi del genere, il rischio sarebbe molto basso). E in terzo ed ultimo luogo perché uno Stato, con una popolazione rilevante, risorse naturali e settore produttivo, è una mucca da mungere, e nessuno si tira indietro, soprattutto quando ha da rifarsi delle perdite finanziarie di una tempesta appena passata.

Abbiamo il caso della Grecia, poi. La Grecia, fra il 2010 e il 2013 ha attraversato tutte queste fasi. Nonostante sia un'economia minuscola, con un debito pubblico abnorme (il 182% del PIL) gli è stato impedito però di fare l'ultimo passo, ossia dichiarare bancarotta. Il governo Tsipras venne comprato, l'eretico Varoufakis silurato, il voto popolare proprio sul rimborso del debito ridotto a carta igienica 24 ore dopo il suo esito. La Grecia commissariata e le sue principali risorse spartite fra le aziende delle principali economie, Germania in primis. Il Paese è tutt'ora in miseria, ma il debito resta lì. Eppure è un'economia secondaria, e la si sarebbe potuta lasciare andare per il proprio destino senza sconquassi eccessivi... E invece no. Niente da fare. Il debito pubblico greco era e resta una gallina dalle uova d'oro per chi lo detiene, ed è per questo che ai greci è vietato parlare di suo disconoscimento, anche solo parziale.

Quando sentirete parlare di “Debito Pubblico”, quindi, sappiate che, dieci volte su dieci, su tutti i canali mainstream, vi stanno prendendo in giro. Non c'è nessun rischio di bancarotta, piuttosto da Wall Street ci bombarderebbero con l'atomica con molta meno pietà di Putin. Spread, deficit, default sono parole vuote, che rivelano solo la volontà di manipolarci tenendoci sempre più legati ai perversi meccanismi economici globali, altro che “rischio di tagliarci fuori”. Taglieggiarci, semmai, all'infinito. E con noi, fra l'altro possono permetterselo. Guardate al Giappone, e questo sarà il mio ultimo esempio. Bene, il Paese del Sol Levante ha un rapporto Debito/Pil del 250%. Non è un errore di battitura: è proprio un cento punti percentuali più di noi. E non fa che aumentare. Ebbene, non mi risulta che abbia problemi di spread, di rientro, di finanziamento. Né che qualcuno minacci Tokyo di esclusione o ritorsioni se non stringe la cinghia. Questo per un motivo semplice, che non è quello comunemente spiattellato agli studentelli di Economia e Commercio o ai lettori del Sole24Ore, ossia che “il Giappone dà maggior affidamento dell'Italia”, dato che non c'è nessun affidamento che possa far sperare in un rimborso di una cifra superiore al 250% del Pil da parte di un'economia che, ormai da trent'anni, non cresce più se non dello zerovirgola. Semplicemente il Giappone ha il controllo della propria economia e della propria moneta, e nessuno ha i mezzi per minacciarlo di alcunché. Noi, con la scusa del debito, veniamo da anni spogliati di tutto e ci siamo fatti distruggere uno dei migliori settori manufatturieri del mondo, finito ormai in Estremo Oriente o in Bangladesh. Quando invece, se avessimo ancora la lira e una Banca d'Italia degna di questo nome, avremmo una situazione paragonabile alla Germania o al Giappone. Perché con un debito del genere verificheremmo l'assunto di Keynes, ossia che tutti quei soldi che dobbiamo non sono più un problema nostro, ma di chi ce li ha dati sperando di guadagnarci a nostre spese, dato che costoro (banche e grandi istituzioni finanziarie) né possono più sperare di riaverli indietro, né avrebbero i mezzi per effettuare ritorsioni che non li danneggino più di quanto non potrebbero nuocere a noi.

Ma sino a quando non lo scopriremo, continuerà la storiella del Debito da ridurre come un dovere verso le generazioni future, ossia il gioco delle tre carte noto come Economia Globale.

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Friedrich von Tannenberg
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