Con David Lynch, scomparso oggi all'età di 78 anni, il confine che separa il bric-à-brac dall'arte autentica si fa labile e incerto. Ed era un tipo di arte che rifuggiva dall'esibizionismo dell'impegno politico, tanto caro a una certa Hollywood, e dalla geremiade progressista, lui che non ha mai nascosto la sua predilezione schietta e discreta per Ronald Reagan.
Tra le sue prove più interessanti, oltre al celebre The Elephant Man e al surreale e inquietante Eraserhead, segnalo Una storia vera e Mulholland Drive. Il primo è una parabola finto-realista che ha per protagonista un anziano agricoltore che a bordo del suo trattore si reca dal fratello moribondo, residente a centinaia di chilometri di distanza; il secondo è una storiaccia noir infarcita di archetipi junghiani e situazioni freudiane, di jump scare e cliché cinematografici.
La classica operazione in bilico tra geniale e kitsch: se l'autore riesce a mantenersi in equilibrio e a camminare sul filo, risulta geniale, altrimenti cade nel ridicolo, nel pretestuoso, nel gratuito. Mulholland Drive è un puzzle impazzito con tutti i tasselli sparsi alla rinfusa, dove il regista sembra suggerire, anzi ingiungere allo spettatore “Ora ricostruiscilo, metti ogni tessera al suo posto”. Fuor di metafora: adesso che lo hai visto, trova tu il senso e la chiave di lettura.
Lo stile involuto e criptico, denso di simbolismi, si segnala anche nel precedente Strade perdute e nel successivo Inland Empire. Tale trilogia rappresenta una svolta nel percorso artistico di Lynch, il quale prende le distanze da Cuore Selvaggio e Velluto Blu, pellicole degli anni Ottanta che in un certo senso, a livello formale, avevano anticipato il pulp tarantiniano, e dallo stesso Twin Peaks, grande sceneggiato – come si diceva una volta in Italia – popolare dove già affiora il realismo magico e il tremendismo fiabesco che contraddistinguerà il cinema lynchiano di fine secolo. La sua Waterloo commerciale fu Dune, una sorta di delirio fantascientifico-scespiriano (indimenticabile il sadico, pustoloso e levitante barone Harkonnen interpretato da Kenneth MacMillan) magniloquente, megalomane, a tratti geniale e soporifero come quasi tutti i kolossal targati Dino De Laurentiis. Lynch esagera con le carabattole onirico-psicanalitiche e alla lunga si rivela estraneo a un genere e a un budget che si attagliano a un Ridley Scott.
E di certo non aiuta la faccia di tolla del protagonista Kyle McLachlan, che non ha l'appeal di Harrison Ford o Mel Gibson.

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