Solo raramente gli statisti cinesi rischiarono l'esito di un conflitto giocando il tutto per tutto in una sola battaglia; al loro stile si addicevano piuttosto complesse manovre della durata di parecchi anni. Mentre la tradizione occidentale esaltava gli scontri decisivi, in cui risaltavano gli atti d'eroismo, quella cinese metteva in rilievo la scaltrezza, la tortuosità e il paziente e graduale consolidarsi delle posizioni di relativo vantaggio. Questa diversa concezione si riflette significativamente nei giochi d'intelletto preferiti dalle due civiltà. Il gioco da tavolo cinese più amato è il weiqi (che si pronuncia, grosso modo, «uei ci», e che in Occidente è conosciuto per lo più con il suo nome giapponese, go). L'espressione weiqi si traduce «gioco del circondare i pezzi», implicando un concetto di accerchiamento strategico. La tavola da gioco, una griglia di diciannove per diciannove linee, all'inizio della partita è vuota. Ogni giocatore ha a propria disposizione centottanta pezzi (o pietre), tutti di pari valore. A ogni turno, i giocatori dispongono i propri pezzi sulla tavola, cercando di mettersi in una posizione di forza e allo stesso tempo di circondare e catturare i pezzi dell'avversario. Si possono ingaggiare diversi scontri simultaneamente in parti lontane della tavola. L'equilibrio delle forze si sposta sempre più nettamente a ogni nuova mossa, a mano a mano che ciascun giocatore mette in atto i propri piani strategici e risponde alle iniziative dell'avversario. Alla fine di una partita ben giocata, la tavola è costellata di aree di influenza parzialmente sovrapposte l'una all'altra. Il margine di vantaggio è spesso sottilissimo, e a un occhio inesperto non sempre appare immediatamente evidente chi sia il vincitore. Gli scacchi, invece, si risolvono sempre con una vittoria totale. Lo scopo del gioco è lo scacco matto, vale a dire costringere il re avversario in una posizione dalla quale non si può muovere senza essere mangiato. La stragrande maggioranza delle partite termina con una vittoria totale ottenuta con un attacco graduale oppure, più raramente, con un'abile e fulminea mossa a sorpresa. L'unico altro possibile esito è un risultato di patta, ossia l'abbandono di ogni speranza di vittoria da parte di entrambi i giocatori. Se gli scacchi inscenano una battaglia decisiva, il weiqi rappresenta una campagna prolungata. Il giocatore di scacchi mira alla vittoria totale, mente il giocatore di weiqi cerca il vantaggio relativo. Il giocatore di scacchi si trova di fronte l'intera forza offensiva dell'avversario: sono sempre dispiegati tutti i pezzi di cui dispongono i giocatori. Il giocatore di weiqi, invece, deve essere in grado di valutare non soltanto i pezzi schierati ma anche i rinforzi che l'avversario è in grado di mettere in campo. Gli scacchi illustrano e insegnano i principi, formulati da Clausewitz, del «centro di gravità» e del «punto decisivo»: la partita comincia infatti, di solito, con uno scontro per conquistare il centro della scacchiera. Il weiqi illustra e insegna, per contro, l'arte della strategia d'accerchiamento. Mentre il bravo giocatore di scacchi cerca di eliminare i pezzi dell'avversario in una serie di scontri diretti, il giocatore di weiqi si muove in spazi «vuoti» della tavola, neutralizzando gradualmente il potenziale strategico dei pezzi del suo avversario. Gli scacchi favoriscono la concentrazione su un unico obiettivo; il weiqi sviluppa la flessibilità strategica. Un analogo contrasto è osservabile nella peculiare teoria militare cinese. I suoi fondamenti essenziali furono posti in un periodo di disordini, quando spietati scontri tra regni rivali decimarono la popolazione del paese. Nel tentativo di rispondere a questa carneficina (e cercando di uscirne vincitori), i cinesi elaborarono un pensiero strategico che esaltava la vittoria ottenuta attraverso un vantaggio psicologico e consigliava di evitare gli scontri diretti. Il capostipite di questa tradizione è passato alla storia con il nome di Sunzi («Maestro Sun»), l'autore del celebre trattato L'arte della guerra.


Henry Kissinger,
Cina (pag. 29-30), 2011, Mondadori.

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