La politica agraria del fascismo fu dettata da una sincera adesione ai modelli di vita rurale o fu piuttosto un ripiego dovuto alla carenza di materie prime necessarie per sviluppare l’industria pesante? Nel libro Gli industriali e Mussolini (1972), Piero Melograni scrive che la politica rurale non arrestò il progresso industriale. Il più lento sviluppo industriale degli anni successivi al 1925 dipese più da cause economiche (gli sforzi di rivalutazione della lira e la grande crisi mondiale) che non dall’indirizzo ruralistico del regime. Misure come le bonifiche, il parziale esproprio del latifondo e la battaglia del grano – volta a conseguire l’autosufficienza alimentare – non riuscirono ad impedire la diminuzione del tasso di natalità e della popolazione residente nelle campagne e il graduale inurbamento. Gli insuccessi della ruralizzazione furono confermati anche dall’andamento di altri fenomeni come l’evoluzione dei prezzi all’ingrosso dal 1929 al 1941, che in Italia, secondo la commissione economica dell’Assemblea costituente, «fu tale da riuscire per duplice verso sfavorevole all’agricoltura». La posizione dell’agricoltura dopo il 1929 «peggiorò sia in quanto fornitrice di materie prime all’industria, sia in quanto consumatrice di merci industriali». La politica di mercato chiuso, i criteri di manovra dei prezzi, le pressioni dei gruppi industriali sulle autorità centrali, portarono al sacrificio del settore primario a vantaggio di quello secondario. Il magnate Riccardo Gualino scrisse a Mussolini: «Come manterremo noi adeguatamente questa popolazione crescente? Se non svilupperemo le industrie, come alimenteremo l’agricoltura? Esiste nel mondo una Nazione veramente grande, soltanto agricola?» Sempre secondo il parere espresso dalla commissione economica della Costituente, «l’agricoltura, quantunque nominalmente oggetto di una politica di difesa e di sviluppo, dovette cedere di mano in mano terreno». Paradossalmente, l’Italia diventò paese industriale proprio durante gli anni della ruralizzazione fascista. Dato che un paese viene considerato «industriale» quando oltre il 50 per cento della sua popolazione attiva maschile è impiegato in attività non-agricole, va ricordato che se nel 1921, in Italia, questa popolazione aveva raggiunto solo il 45,6 per cento del totale, nel 1931 aveva ormai superato, sia pur di poco, il limite del 50 per cento. Tenendo conto non soltanto della popolazione maschile, ma anche di quella femminile, questo limite fu superato poco più tardi, nel 1935. Prendendo in esame il prodotto lordo privato per rami di attività (agricoltura, industria, servizi), dovrà essere sottolineato che mentre nel 1922 l'agricoltura contribuiva ancora per il 42,8 per cento al prodotto nazionale, nel 1925 tale quota era discesa al 38,1 per cento e nel 1931 era precipitata al 30,7 per cento.

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