Dopo un lungo stop dall'ultimo commento all'undicesimo capitolo del libro di Marco Cosmo, riprendo con il successivo.

Quando qualcuno pensa alla figura del maestro o del praticante spirituale, nella sua mente spesso si forma lo stereotipo del santone, del guru vestito con una lunga tunica bianca o arancione, con un sorriso perenne stampato in faccia e l'incapacità di arrabbiarsi o soffrire. Oltre questo, si pensa spesso che un uomo o una donna simili non abbiano una famiglia e non lavorino, ma o conducano una vita eremitica o vivano in mezzo a dei discepoli/compagni di percorso, in pace e armonia.


In realtà, questa è un'immagine fittizia, ma che illude perfino chi è in cerca di un maestro spirituale, da cui talvolta si aspetta dei superpoteri che un maestro, da essere umano, non ha.
Questo accadeva anche a Gesù. Poiché era riconosciuto come Messia, in molti si aspettavano che avrebbe rovesciato il potere costituito per fondarne uno basato sulla sua persona. Sappiamo che Gesù, invece, non faceva riferimento alla materialità dell'uomo, ma chiamava in appello il suo spirito.

In questo capitolo, Marco ci dice che non c'è niente di speciale, straordinario o spumeggiante nella realizzazione spirituale e che questa non ha bisogno di un ambiente particolare per manifestarsi.
A me ha sempre colpito il fatto che un mistico, Aurobindo, avesse raggiunto l'illuminazione in carcere. Un uomo col corpo in prigione è riuscito a realizzare il massimo della liberazione! A dimostrazione che l'illuminazione, la realizzazione, il risveglio non ha bisogno di un monastero o di una foresta silenziosa per accadere.

Allo stesso modo, il mistico non deve necessariamente ritirarsi in solitudine, lontano dalla famiglia e dalla vita ordinaria, per prendere contatto con sé stesso e con Dio. Dio sta negli occhi stanchi e dolci di tua moglie, nel sorriso spontaneo di tuo figlio, ma anche nel rimprovero del tuo capo o nelle lacrime del tuo migliore amico. E tu puoi farti suo strumento in qualsiasi momento, perché tu sei con Lui in ogni istante. Dio è sempre nel cuore di ogni uomo, perché nessuno è realmente disgiunto da Lui.

Cos'è che ci fa sentire lontani, persi, abbandonati da Dio? La compulsione mentale.
L'ho scritto in altri articoli: la mente, di per sé, segue la sua natura, che è quella di produrre pensieri incessanti (salvo in momenti particolari e comunque brevi).

Quando si comincia a meditare, si crede che la soluzione per giungere all'illuminazione sia bloccare il flusso dei pensieri. In realtà, si peggiora la situazione, perché si sta attuando un'azione repressiva e ogni azione repressiva non fa che creare la giusta pressione per far esplodere poi il problema in modo più violento.
La chiave sta nell'osservazione pura e semplice. Se esercitata, si potrà far sfogare la mente senza rimanere invischiati nella catena di pensieri e senza che questi influiscano sul nostro stato d'animo.

È tutto qui. Non ci sono estasi mistiche o angeli che discendono dal cielo per render lode alla presa di consapevolezza.
Più si va avanti nel cammino e più si diviene semplici, fino a non chiedersi più se si raggiungerà l'illuminazione o no.

Le mie attività quotidiane sono del tutto ordinarie, però sono in totale armonia con esse. Non trattengo nulla, non respingo nulla; in ogni circostanza nessun ostacolo, nessun conflitto.

Che importa di ricchezze e onori? Persino la cosa più umile risplende. I miei poteri miracolosi e le mie attività spirituali: attingere acqua e trasportare legna da ardere.
(Saggezza Zen)

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Come solito, un testo la cui dolcezza e la cui luce valgono da sole più di un insegnamento. Il nocciolo di ogni cammino spirituale è il riconoscimento che il mondo della materia non ha realtà propria, e, dal punto di vista dell'essere più concreto, neppure esiste. Ho aspirato a lungo all'estasi mistica così come l'hanno raggiunta alcuni neoplatonici e cristiani, ma il massimo che ho raggiunto è un attimo di gioia profonda nello scoprire un concetto particolarmente profondo, un verso particolarmente bello, nella lettura di un testo.
 

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Mina Vagante
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