Come tutti, a 42 anni ho il mio bagaglio di lutti. E di ognuno di essi, ricordo uno schema fisso: la voglia che tutto l'ambaradan finisse presto, una forte depressione, una grande paura per il futuro, laddove queste persone rappresentassero per me un paracadute, una grande chiusura di stomaco. Ed è una prassi ricorrente. Chi vive un profondo dolore vede recidere, spesso persino in pochi minuti, il tempo di un infarto fulminante, anni di ricordi, di gioie e dolori vissuti assieme. Quando al funerale di mamma chiesero a me e papà di fare un discorso, ci rifiutammo nettamente. Non ce la facevamo. Quando poi nel 2020 anche papà chiuse gli occhi per sempre, lì c'era poco da fare discorsi: eravamo all'inizio del delirio pandemico e già è stato un miracolo che mio padre non l'abbiano buttato nella monnezza. E comunque anche per la sua morte non avrei fatto alcun discorso. Sono cose che non mi piacciono, semplicemente. Il dolore mi rende letteralmente un'ameba. Per giunta, lo esprimo in modalità che suscitano poca commozione nel prossimo. Se voi vedete qualcuno piangere e siete un minimo sensibili, vi avvicinate a lui/lei e cercate di consolarlo. Io non riesco a piangere, in senso classico. Il mio "pianto" si esprime in intere ore di dissenteria al gabinetto, macerandomi nei miei pensieri, pensando in negativo. Sono sempre "lacrime", intendiamoci, e sono molto peggio di quelle, per così dire, "originali". Ma non commuovono nessuno. Anche perché diciamoci la verità, nessuno andrebbe a consolare qualcuno mentre defeca.
Tutti questi particolari coprolalici non per scandalizzare il lettore ma soltanto per dire che la frase retorica "ognuno il dolore lo vive a modo suo", è fondamentalmente una scemenza. Certo, c'è chi durante un funerale sorride e agisce come se nulla gli fosse successo, per crollare pesantemente dopo qualche tempo. E' successo ad un mio caro amico. Ma relativizzare il dolore significa relativizzare tutto. E ci sono cose su cui, se si decide di farlo, ci si assoggetta alle critiche.

Personalmente devo confessare che, indipendentemente da ogni complottismo ("Giulia non esiste, viene da una famiglia di massoni" e varie amenità) il comportamento della famiglia di Giulia Cecchettin mi inquieta non poco. Perché oggettivamente c'è da rimanere perplessi che la sorella di una ragazza morta ammazzata vada in TV a fare comizi politici. E altrettanto si rimane meravigliati se la nonna di questa ragazza decide, a pochi giorni da un evento di questo tipo, di dedicarle un libro che narra, indovinate un po', di patriarcato. Insomma, est modus in rebus.
Sia detto per inciso, fino a prova contraria, il caso è chiuso e il colpevole è Filippo Turetta. Scrivere che è stata la sorella, che magari Giulia neanche esiste, più che essere sciacallaggio, è semplicemente una diffamazione per la quale si rischia di essere querelati. Non c'è bisogno che sia accaduto qualcosa di strano perché è tutto il martellamento mediatico ad essere strano. E, dunque, se la gente sente puzza di bruciato, è inevitabile che si esprima, specie se si vedono invase televisioni e bacheche social. Se ci si espone pubblicamente, partecipando a maratone televisive, intervenendo a tutti i talk-show, con maglie, per così dire, abbastanza strane, puoi provare tutto il dolore del mondo ma inevitabilmente ti esponi a delle critiche. Puoi anche mettere da parte il dolore e andare in TV a parlare di altre cose. Ma se in qualche modo attraverso il dolore ti metti a promuovere libri che parlano proprio di tematiche simili al fatto che ti è appena accaduto e ti presti più o meno consapevolmente alla propaganda, inevitabilmente si viene criticati.

Poi certo, si arriva all'eccesso complottistico. Ma non ci vuole un genio per capire che se tanta gente sente puzza di bruciato, vuol dire che da qualche parte c'è qualche fuocherello. Se poi, l'incendio, sia all'interno della famiglia o provocato dai media, che hanno bisogno di qualcosa che riempia le pagine per coprire i fallimenti occidentali in Ucraina, o che sia incentivato dalla politica per promuovere qualche porcata, nessuno può dirlo.
Certo è che chi non vive privatamente il proprio dolore e decide non dico di raccontarlo semplicemente con la disinvoltura (come Dario Fo che al funerale della moglie Franca Rame, addirittura improvvisò un mezzo sketch) ma cogliendo in esso un pretesto o per lanciare dei messaggi politici o per vendere qualcosa di proprio, deve accettare di essere criticato.
Se la nonna e la sorella di Giulia fossero rimasti nella propria dimensione privata, nessuno avrebbe avuto da ridire.
Alle volte, soprattutto chi non ha esperienza di media e vi si ritrova proiettato per circostanze fortuite, sembra dimenticare la lezione di Sandra Mondaini che ripeteva sempre di "appartenere a quella generazione in cui l'attore sapeva di entrare nelle case senza suonare il campanello e quindi ci entrava con la cravatta e con garbo".
Se la sorella ci entra con le maglie che richiamano strani simboli e la nonna sfrutta l'onda mediatica per promuovere un suo libro, il garbo va a farsi benedire.

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I media fanno il loro lavoro: battere a tamburo sulla notizia eclatante. La politica fa il suo lavoro: cavalcare l'onda modaiola sfruttando la notizia eclatante. La fama arriva ai parenti e fa superare il dolore, se mai c'è stato. Spero che almeno abbiano preso dei soldi, dato che da giorni hanno aumentato l'audience televisiva e fanno vendere i giornali. Se non l'hanno fatto sono emeriti imbecilli e allora mi spiego come una ventidueenne sia caduta preda di uno squinternato.
 
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C'è un obiettivo che mi sfugge di fronte a tutta questo fracasso mediatico. L'obiettivo c'è, è sfuggente, ma c'è, e la famiglia stranetta, eufemismo, si presta al gioco spero involontariamente e solo per il fatto di essere stranetta forte al limite dell'inquietante.
 

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Franco Marino
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