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Gli ultimi ventiquattro mesi ci hanno fatto capire che da circa un secolo la Germania è una nazione geopoliticamente disfunzionale, un maggiordomo pronto ad indossare la divisa da kamikaze e a immolarsi per presunti alleati che se ne stanno al di là della Manica e dell'oceano. Il Reich d’acciaio, patria del genio di Wagner, Max Planck, Koch e Bismarck, sembra un ricordo sbiadito dal tempo. La sguaiata mitezza del suino disposto a beccarsi insulti e calci senza fiatare descrive alla perfezione il carattere nazionale dei tedeschi contemporanei.
Sonore bastonate, omicidi mirati e piccoli incidenti hanno progressivamente azzerato l'autorevolezza e ridotto all'osso l'autonomia di Berlino. Passata la sbornia della Friedliche Revolution, la “Rivoluzione pacifica” che condusse alla caduta del muro e alla susseguente riunificazione, la Germania fu sottoposta a una delle periodiche tosature forzate. Prima, però, fu necessario togliere di mezzo due illustri rompiscatole locali. Il presidente di Deutsche Bank, il cattolico Alfred Herrhausen, barbaramente ammazzato nel 1989 dai soliti terroristi rossi (Rote Armee Fraktion), era, rara avis, un banchiere con una formazione da manager industriale, avversatore di quel debito che non è altro che usura legalizzata e che l'Anglosfera adopera magistralmente come arma di ricatto. Herrhausen capì (come Craxi a proposito del debito che gravava e grava sulle giovani realtà del Terzo mondo) che cancellando i debiti avremmo permesso ai paesi dell'ex blocco socialista di destinare agli investimenti per la ripresa economica risorse altrimenti destinate ad estinguere passività e interessi sul debito. Evidentemente non tutti i tedeschi sono ossessionati da quel termine, schuld, che nella loro lingua designa sia il “debito” che il “peccato” o la “colpa”. E ciò confuta anni di prediche germanofobe provenienti, purtroppo, da ambienti sovranisti, tanto dai quadrumviri gatekeeper in quota Lega, quanto dagli integerrimi patrioti ciociaro-abruzzesi col dirizzone per l'Anschluss e l'Ostalgie inguaribile
tipica dei similcomunisti. Herrhausen si era ripromesso di investire cifre considerevoli nella modernizzazione dell’ex DDR e dell'est Europa, Russia compresa, proseguendo nel solco tracciato da Willy Brandt con l’Ostpolitik. Il costo del lavoro irrisorio abbinato all’abbondanza di profili altamente qualificati (il cosiddetto STEM: science, technology, engineering, mathematics) rendevano lo spazio orientale una potenziale Silicon Valley europea e minacciavano di rinverdire i fasti tecnologici della Mitteleuropa, culla della seconda rivoluzione industriale e dell’era atomica. Perché se noi italiani abbiamo scoperto l’America, i tedeschi e gli slavi l’hanno fatta grande. La figura di Herrhausen e la sua parabola umana e politica ricordano, per certi versi, il cancelliere tedesco Walter Rathenau, artefice di quel trattato di Rapallo che tentò di avviare un proficuo partenariato tra Weimar e Mosca.
Rathenau fu assassinato nel 1922 da un militante di estrema destra, a riprova del fatto che i tedeschi che guardano a est non muoiono nel proprio letto. Tornando agli anni Novanta, l’altra vittima eccellente che cambiò il corso della storia tedesca ed europea fu il deputato socialdemocratico Detlev Rohwedder, direttore della Treuhandanstalt, l’agenzia governativa incaricata di dismettere i beni e le attività della Germania comunista. Seguace del capitalismo renano e allergico ai dogmi manchesteriani, fu proprio Rohwedder a suggerire di risanare le aziende prima di privatizzarle, evitando di bruciare le tappe. «Questi signori non hanno idea, per quanto rapidamente si possa liquidare un’impresa di 1.000 persone, di come maledettamente difficile sia ricostruirla – con macchine di prima qualità, collegamenti col mercato, posti di lavoro sicuri» Risultato? Finì al camposanto. Il Leviatano anglotalmudico non poteva accettare il duplice pericolo, economico e politico, rappresentato da una Germania attratta dall'oriente e che si era messa in testa di fare concorrenza nei settori high tech.
Ragion per cui, nel 1989 le ha metaforicamente sbarrato la strada che portava ai semiconduttori, mentre nel 2022 (North Stream 2) le ha tagliato l'energia a costi vantaggiosi. L’establishment tedesco in sella dal secondo dopoguerra, che è la cricca di manutengoli bottegai descritta da Jean Thiriart, fu indotto ad accettare il solito ripiego meschino, l’annessione forzata e rapida della DDR, il “Mezzogiorno senza mafia” secondo l’impietosa e lapidaria definizione di Helmut Schmidt, e l’ipoteca su alcune spoglie (Croazia e Slovenia) della ex Jugoslavia, finita nel mirino dei cravattari cannibali del FMI. Il tesoretto stanziato per ricostruire e sviluppare l’est(ero) vicino fu dilapidato nel progetto di cambio alla pari del Deutsche Mark con l’Ostmark, una mossa scellerata che ricorda tristemente il cambio Marco-Lira imposto dal mortadellone felsineo. Come se non bastasse, furono adeguati salari, pensioni e potere d’acquisto senza prima adeguare il tessuto economico (come avevano sollecitato Herrhausen e Rohwedder), con la prevedibile conseguenza di devastare il bilancio dello Stato.
Le montagne di denaro pompate misero in difficoltà i tedeschi dell’Ovest senza riscattare i derelitti
Ossis, i crucchi dell’Est, che da un giorno all'altro si ritrovarono la disoccupazione, la criminalità organizzata e il neonazismo sulla porta di casa, corollario della scintillante società dell'abbondanza occidentale. Le ragioni dell'attuale spleen che pervade la Prussia o se preferite la Germania dell'est, mai interamente integrata, uno spleen che ha fatto impennare i consensi di Alternative für Deutschland e della Wagenknecht, vanno cercate precisamente qui, negli ultimi trentacinque anni di una riunificazione che non ha riunificato perché non doveva riunificare, non solo nella quarantennale parentesi comunista.

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