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Il caldo di quel pomeriggio d’agosto nella campagna romana, era denso e soporifero. Le cicale tessevano un favorevole tappeto sonoro a chi volesse riposare gli occhi per un breve, lungo attimo. Gigetto, dieci anni ben portati, se ne stava sdraiato all’ombra della grande quercia che dominava la collina dietro casa sua. Suo padre, un uomo di poche parole e tante preoccupazioni, si era addormentato sulla poltrona davanti al camino spento della loro nuova casa, lasciandolo libero di sgattaloiare dalla finestra a piano terra della sua stanza. Libero in quella campagna immensa e sconosciuta.

Da quando la mamma era volata via con gli Angeli del Firmamento, Gigetto amava stare da solo. Lì, tra uliveti grigi e filari di vite ordinati, la sua fantasia poteva galoppare senza freni. E soprattutto, amava quella quercia che aveva scoperto pochi giorni fa. Era come un gigante delle favole, pensava. I suoi rami nodosi erano braccia pronte a proteggerlo, la sua corteccia una pelle antica e invulnerabile. A volte gli pareva di sentire un mormorio quando il vento accarezzava le sue foglie, come se l’albero gli stesse parlando.

Quel giorno, spinto da un impulso improvviso, appoggiò la guancia al tronco massiccio e sussurrò: "Se puoi sentirmi, fammi un segno. Non lo dirò a nessuno.".

Il vento si fermò di colpo. Le cicale tacquero. Un silenzio innaturale, carico di attesa, scese sulla collina. Poi, un leggero tremolio partì dalle radici e salì lungo il fusto, fino ai rami più alti. Non era il vento. Era l’albero stesso che si muoveva.

«Un segno, piccolo mortale?»

La voce non arrivò alle orecchie, ma direttamente dentro la sua testa, come un ruggito sommesso di terra e radici, di linfa e secoli. Gigetto sobbalzò, ma non per la paura. Per la meraviglia.

"Davvero parli?" mormorò, ancora appoggiato al tronco.

«Parlo da quando Roma era un villaggio di pastori» rispose la voce. «Mi chiamavano Quercus. Mi veneravano. Poi hanno dimenticato, come spesso accade. Ciao, ragazzino curioso».

Fu in quel momento di connessione pura che la natura intorno a loro cambiò. L’aria, prima calda e pesante, divenne improvvisamente fredda e tagliente. Un odore di muschio marcio e di capro riempì le narici di Gigetto. Dall’ombra fitta di un cespuglio di rovi, emerse una figura che non avrebbe dovuto esistere fuori da un libro di favole.

Era un uomo, ma solo dalla vita in su. Il resto era capra, con zoccoli neri e lucidi che scalpitavano sul terreno erboso. Le sue corna erano piccole e ritorte, i lineamenti aguzzi, gli occhi gialli che brillavano di una malizia antica. Un sorriso lascivo gli deformava le labbra.


«Quercus, Quercus» sibilò, con una voce che era un gracchiare beffardo. «Commovente. Un dio debole e decaduto che si intrattiene con un vermiciattolo umano.».

Quercus sembrò irrigidirsi. I suoi rami si contrassero come muscoli. «Torna nelle tue selve oscure, satiro, e dal tuo padrone Pan. Questo luogo è sotto la mia protezione».

«La tua protezione?» ghignò la creatura, avanzando con un passo saltellante e innaturale. «Tu proteggi il nulla. Ma il ragazzo… il ragazzo ha visto. Ha squarciato il Velo. E ai mortali non è concesso farlo e poi vivere. È la Regola».

Gigetto sentì un gelo improvviso. La creatura non lo stava minacciando, stava semplicemente enunciando un fatto, crudele e inevitabile come l’inverno. I suoi occhi gialli erano fissi su di lui, pieni di una fame perversa.

«Non gli torcerai un capello» ruggì la voce di Quercus nella mente di Gigetto, ma questa volta piena di un’ira che faceva tremare la terra sotto i loro piedi.

«E come mi fermerai, albero?» lo sbeffeggiò il satiro. «Sei legato al suolo. Io sono il respiro del Caos, il Latore della Follia dei Sensi! Posso ballargli intorno finché non cadrà stremato, e allora gli squarcerò il collo con le mie unghie affilate!»

Il satiro si lanciò in una corsa repentina, uno zigzagare folle attorno alla grande quercia, sempre più vicino a Gigetto, che era paralizzato dal terrore. Il ragazzo poteva sentire l’odore del pelo bagnato, il fetore dell'alito.

«Gigetto!» tuonò Quercus. «sta giù!»

Il ragazzo si rannicchiò vicino al suo protettore. Vide delle radici affiorare dal terreno, nodose e forti come serpenti di legno. Capì. Mentre il satiro gli passava davanti con un balzo beffardo, Gigetto fece l’unica cosa che poteva fare: chiuse gli occhi.

Fu allora che il suolo esplose.

Con un boato che sembrò scuotere il cielo, la grande quercia si sradicò. Le sue radici divennero gambe colossali, i suoi rami braccia immense che si protesero verso il satiro. Non era più un albero, era un Titano risvegliato e furente.

Il satiro si fermò di colpo, il ghigno cancellato dal suo volto, di fronte alla furia primordiale della terra stessa.

«Hai dimenticato» ruggì Quercus, e questa volta la sua voce risuonò in tutta la valle, «che io non proteggo solo con la mia ombra!»

Un ramo enorme, come una clava divina, si abbatté sul satiro. Non lo colpì direttamente, ma sbatté con forza tremenda sul terreno accanto a lui. Il terriccio e l’erba volarono via, e l’impatto scagliò via la creatura come un fuscello attraverso la radura, che
si dissolse poi come uno spettro, con un grido strozzato.

Poi, lentamente, con un gemito di legno e pietra, Quercus riposizionò le sue radici nella grande buca da cui era emerso. La terra si richiuse su di esse, accomodandolo di nuovo al suo posto.

Il silenzio tornò. Il sole era più caldo, le cicale ripresero il loro canto.

Gigetto, tremante, si rialzò e si avvicinò al tronco. Lo toccò. Era di nuovo soltanto corteccia, solida e familiare.

«Grazie» sussurrò, con le lacrime che gli solcavano le guance sporche di terra.

«Non ringraziarmi, piccolo amico» rispose la voce, ora di nuovo calma e affettuosa. «È stata la tua devozione a darmi la forza. Hai visto la minaccia, e non sei fuggito. Hai ascoltato il mio consiglio».

«Chi era quel... mostro?» disse Gigetto, ancora sconvolto.

«L'eco di un mondo antico e oscuro. Un mondo che a volte ribussa alle porte di questo. Ma non oserà darti più fastidio».

Quella sera, Gigetto rientrò a casa, trovò il padre che stava risvegliandosi proprio in quel momento, tranquillo.

"Oh, giovanotto. Che hai fatto tutto il giorno?" gli chiese, appoggiando una mano sulla sua spalla.

Gigetto sorrise.

"Niente, papà. Ho incontrato un nuovo amico".

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- Scritto da Giuseppe Cozzolino
- Elaborazione grafica AI di Giuseppe Cozzolino

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Giuseppe Cozzolino
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