Una persona mi ha detto: "Tizia ha iniziato a comportarsi come Sempronia, sta diventando lamentosa, lagnosa". Avendo simpatia per Tizia, le ho spiegato che dipende dall'aver vissuto un'esistenza molto dura.
Però poi mi sono chiesta: "Ma, noi, non ci lamentiamo mai?"
Spesso sì, lamentarsi è normale, ma in molti non lo mostrano. Il lamento rimane un monologo interiore che alimenta la frustrazione per non riuscire a realizzare completamente i nostri progetti, a portare a termine dei compiti nei tempi desiderati, a svincolarci da un'incombenza. Gran parte di noi si lamenta, ma non esprimere questo disappunto ci porta a pensare di essere migliori di chi si piange addosso.
Questo avviene perché non ci chiediamo: perché non ci lamentiamo apertamente? Lo facciamo per umiltà o per orgoglio?
La persona umile è colei che, pur mal sopportando le fatiche quotidiane, le accetta con fede, consapevole che ogni cosa va esattamente come deve andare.
Voglio raccontarvi una storiella zen: un monaco va al mercato e, nel passare accanto al banchetto del macellaio, sente il dialogo tra quello e un suo cliente, che gli dice: "Dammi il tuo pezzo di carne migliore!", al ché il macellaio risponde: "Qui tutto è il migliore!" Nel sentire queste parole, il monaco si illumina.
Noi siamo come il cliente che vuole solo il meglio da ciò che ha da offrirci la vita, ma, se in noi si desta l'intelligenza del monaco, possiamo arrivare alla comprensione che tutto ciò che è presente nel nostro microcosmo quotidiano è ciò a cui possiamo e dobbiamo partecipare, niente di più e niente di meno. Non solo! Quello che ci appare sbagliato o semplicemente inferiore alle nostre aspettative è "il migliore", degno di importanza quanto ciò che consideriamo buono.
La mente si contrappone al flusso sapiente del divenire, ma l'attrito non fa che alimentare il senso di frustrazione, nonché l'illusione di non essere al posto giusto nel momento giusto. La catena illimitata del desiderio e dell'aspettativa verso l'esterno crea una sequela di "dovrei, farei, sarei" che ci trasporta sempre lontano da noi e dal momento che stiamo vivendo, per questo non siamo consapevoli della verità del sé in sé, che si riverbera nella realtà in un movimento di reciproca compenetrazione.
Non ci lamentiamo, quindi, non per santa umiltà e aderenza al nostro momento, ma per orgoglio, per non mostrare di essere deboli, fragili, arrabbiati. Talvolta, chi si lamenta è molto semplice, si limita a sfogarsi e poi, alleggerito, riprende la sua vita di sempre, senza permanere in quel senso di frustrazione.
Non è quindi la lamentela a svelare il temperamento di qualcuno, ma ciò che si agita nel segreto del suo cuore e il suo modo di affrontarlo.
Però poi mi sono chiesta: "Ma, noi, non ci lamentiamo mai?"
Spesso sì, lamentarsi è normale, ma in molti non lo mostrano. Il lamento rimane un monologo interiore che alimenta la frustrazione per non riuscire a realizzare completamente i nostri progetti, a portare a termine dei compiti nei tempi desiderati, a svincolarci da un'incombenza. Gran parte di noi si lamenta, ma non esprimere questo disappunto ci porta a pensare di essere migliori di chi si piange addosso.
Questo avviene perché non ci chiediamo: perché non ci lamentiamo apertamente? Lo facciamo per umiltà o per orgoglio?
La persona umile è colei che, pur mal sopportando le fatiche quotidiane, le accetta con fede, consapevole che ogni cosa va esattamente come deve andare.
Voglio raccontarvi una storiella zen: un monaco va al mercato e, nel passare accanto al banchetto del macellaio, sente il dialogo tra quello e un suo cliente, che gli dice: "Dammi il tuo pezzo di carne migliore!", al ché il macellaio risponde: "Qui tutto è il migliore!" Nel sentire queste parole, il monaco si illumina.
Noi siamo come il cliente che vuole solo il meglio da ciò che ha da offrirci la vita, ma, se in noi si desta l'intelligenza del monaco, possiamo arrivare alla comprensione che tutto ciò che è presente nel nostro microcosmo quotidiano è ciò a cui possiamo e dobbiamo partecipare, niente di più e niente di meno. Non solo! Quello che ci appare sbagliato o semplicemente inferiore alle nostre aspettative è "il migliore", degno di importanza quanto ciò che consideriamo buono.
La mente si contrappone al flusso sapiente del divenire, ma l'attrito non fa che alimentare il senso di frustrazione, nonché l'illusione di non essere al posto giusto nel momento giusto. La catena illimitata del desiderio e dell'aspettativa verso l'esterno crea una sequela di "dovrei, farei, sarei" che ci trasporta sempre lontano da noi e dal momento che stiamo vivendo, per questo non siamo consapevoli della verità del sé in sé, che si riverbera nella realtà in un movimento di reciproca compenetrazione.
Non ci lamentiamo, quindi, non per santa umiltà e aderenza al nostro momento, ma per orgoglio, per non mostrare di essere deboli, fragili, arrabbiati. Talvolta, chi si lamenta è molto semplice, si limita a sfogarsi e poi, alleggerito, riprende la sua vita di sempre, senza permanere in quel senso di frustrazione.
Non è quindi la lamentela a svelare il temperamento di qualcuno, ma ciò che si agita nel segreto del suo cuore e il suo modo di affrontarlo.